Le etichette anticontraffazione oggi sono un piccolo tassello della Internet of Things: tecnologia e creatività, infatti, aiutano produttori e distributori a combattere un mercato dai numeri impressionanti.
L’RFID, ad esempio, è utilizzato da un numero sempre maggiore di brand del fashion, da Patrizia Pepe a Fendi, da Proenza Schuler a Maliparni, da Harmont & Blaine a Bottega Veneta: in questi casi le etichette anticontraffazione vengono associate a uno speciale microchip, chiamato tag o transponder, in cui sono memorizzate tutta una serie di informazioni relative all’origine, alla composizione e alla fattura di ogni singolo prodotto, che si aggiungono ai dati relativi a taglia, colore e modello. Allo stesso modo lo usano colossi dei retail come Tesco, WallMart, Zara e Decathlon: il tag, infatti, funge anche da sistema invisibile di antitaccheggio.
Grazie alla tecnologia Rfid è così possibile in qualsiasi momento interrogare un prodotto e verificare o meno la sua effettiva autenticità. Alla stessa stregua di una carta d’identità univoca, infatti, il tag può essere riconosciuto a lunga distanza (RFID) o a breve distanza (NFC – Near Field Communication), consentendo a consumatori e a forze dell’ordine di sapere se si tratta o meno di un prodotto originale e quali sono le sue caratteristiche. Il prodotto, dunque, grazie alla tecnologia Rfid diventa intelligente e comunicante, portando efficienza alla logistica e a tutta la filiera.
Etichette anticontraffazione, un progetto estremamente complesso
Le etichette anticontraffazione possono essere associate a un capo, a una bottiglia di vino o anche solo a un accessorio e, dunque, sono molto più di uno status symbol, rappresentando l’essenza stessa del prodotto di qualità. Il supporto in pochi centimetri di spazio esprime l’identità di un marchio e, svolge un duplice ruolo di garanzia per il consumatore e di sistema anticontraffazione a tutela della produzione.
Quello che molti non sanno è che a proteggere la maggior parte dei marchi del lusso nazionale e internazionale è una piccola azienda italiana a conduzione familiare che, da più di mezzo secolo, lavora con assoluta discrezione, ideando piccoli capolavori ispirati alla migliore tradizione poligrafica. Si chiama Artigrafiche Pagani e si trova a Lazzate: sulla cartina geografica è solo un puntino tra Monza e Brianza, ma è qui che i più grandi colossi dell’industria del fashion, ma anche dell’automotive, dell’elettronica e persino dell’infotainment arrivano da ogni parte del mondo per commissionare i loro sigilli anticontraffazione, realizzati attraverso un lavoro ispirato ai più rigorosi principi di qualità, esclusività e riservatezza.
“C’è molto mestiere in un’etichetta anticontraffazione – racconta Achille Pagani, artista poligrafo e da 60 anni maestro di ghiosce, intrecci e petalature complesse – che a occhio nudo è difficile da notare. Ogni brand ha un suo stile e quindi l’etichetta deve trovare la giusta corrispondenza estetica, bilanciando in modo armonico i diversi elementi tecnici e scientifici necessari a raggiungere l’inimitabilità. Nell’ideazione di un sistema di identificazione e di certificazione, l’insieme degli elementi grafici deve essere progettato da zero, proprio come se si trattasse di dipingere una tela bianca. Ogni etichetta rientra poi in un progetto che viene studiato su misura e risolto attraverso una fase di analisi estremamente minuziosa e dettagliata di materiali, forme e supporti che devono integrare sistemi che, nel tentativo di manomissione, rendono evidente l’effrazione, inficiando così i tentativi di abuso”.
Per capire il business di Artigrafiche Pagani basta sfogliate il catalogo, che contiene decine di modelli diversi per tecniche, composizioni e tecnologie integrate. Il volume di produzione? Oltre 100 milioni di etichette anticontraffazione prodotte ogni anno.
L’anticontraffazione tra arte, scienza, tecnica e tecnologia
Per realizzare un’etichetta anticontraffazione ci vuole tecnica, ma anche molta competenza progettuale. È necessario tener conto di tutta una serie di variabili. Bisogna considerare il tipo di utilizzo che verrà fatto dell’etichetta e degli ambienti di distribuzione in cui verrà movimentato il prodotto o il contenitore a cui questa verrà associata, il che contribuirà a determinare la scelta del supporto su cui dovrà essere generata o riprodotta così come la tipologia dei materiali su cui dovrà essere applicata e, di conseguenza, con che eventuali modalità di applicazione.
Una volta verificati e finalizzati questi aspetti, si dovrà procedere a una serie di stress test legati all’esposizione alla luce, ai lavaggi, alle temperature, alle trazioni e alle possibili manipolazioni a cui l’etichetta dovrà essere sottoposta, in modo da assicurare la sua durata e la sua inalterabilità effettiva nel tempo.
“Le tecniche di falsificazione si sono notevolmente raffinate – spiega Lucia Pagani che, insieme ai fratelli, ha affiancato il padre nel lavoro -, complici gli ingenti interessi economici in gioco. Per questo motivo, negli ultimi trent’anni all’arte poligrafa si sono affiancate ulteriori tecniche di produzione e di stampa che, oltre agli ologrammi e ai codici mono e bidimensionali, prevedono l’utilizzo di materiali compositi oltre a carte e tessuti, come PET, PVC o OPS, sistemi adesivi e termoretraibili , associati all’uso di inchiostri invisibili, dotati di nanoparticelle fluorescenti e termoriflettenti che reagiscono a seconda delle angolazioni della riflettenza luminosa ambientale o artificiale, e soluzioni innovative caratterizzate da tecnologie come bande ottiche, bande magnetiche, per arrivare alle incisioni laser o alle micromarcature su lamelle di silicio e di quarzo. La soluzione più completa e all’avanguardia è la tecnologia RFID (RadioFrequency IDentification), con le sue varianti NFC (Near Field Communication)”. Il valore del tag, infatti, essendo associato a un TID, ovvero un numero univoco inserito durante il processo di fabbricazione del chip e dunque impossibile da falsificare, è riconosciuto in sede legale. Dimostrando effettivamente che la merce venduta non è originale, infatti, l’Rfid al momento è l’unico sistema che tutela i brand anche dal mercato grigio.
Il Made in Italy contro la falsificazione e il mercato grigio
A differenza del mercato nero, infatti, il mercato grigio è molto più dannoso e subdolo per le grandi firme, perché legata a una parte della produzione che, pur essendo regolarmente prodotta e regolarmente fatturata, a un certo punto fuoriesce dai canali distributivi autorizzati. In questo modo i brand perdono il controllo sui loro prodotti, rischiando così di non soddisfare i requisiti di qualità, di servizio e di prezzo richiesti invece al proprio canale di vendita, con un impatto negativo sia a livello di immagine che di fatturato.
“Che si usi un ologramma, delle etichette con inchiostri traccianti visibili solo con lampade particolari, un tag Rfid o una combinazione di soluzioni un’etichetta anticontraffazione è sempre e comunque un progetto estremamente complesso – ribadisce Achille Pagani – che richiede un pool di specialisti esperti ognuno nel proprio campo di pertinenza, in un mondo che è in continua evoluzione. Per questo motivo, oltre alla continua ricerca e sviluppo di nuovi supporti e nuove tecniche di stampa e di produzione, negli anni abbiamo stretto accordi con due aziende selezionate: LabId, specialista italiano nella progettazione e della produzione dei tag, e TraceToo, system integrator che progetta e risolve tutta l’architettura di sistema necessaria a governare il processo di tracciabilità e rintracciabilità dei prodotti associati alle etichette Rfid, sviluppando soluzioni sofisticate e sicure, ma che funzionano in modo semplice ed estremamente intuitivo”.
Lotta alla contraffazione e tutela del business
La Direzione generale per la lotta alla contraffazione del Ministero per lo Sviluppo Economico insieme all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), attraverso il progetto IPERICO, hanno realizzato un archivio che raccoglie tutte le informazioni relative all’attività di contrasto della contraffazione: solo nel quinquennio tra il 2008 e il 2013 si parla di circa 100mila sequestri, per un ammontare di circa 335 milioni di pezzi sequestrati ed un valore economico complessivo di 3,8 miliardi di euro.
Il settore merceologico più esposto al fenomeno è quello dell’abbigliamento e degli accessori, colpiti rispettivamente dal 20,5% e dal 36,2% rispetto al totale dei sequestri. Cifre che paiono tanto più significative, se si tiene presente che, escluso il settore calzaturiero (12%), nessuno degli altri settori raggiunge il 10%.
Secondo il Censis, il mercato della contraffazione solo in Italia elimina 105.000 posti di lavoro dall’economia legale e fa perdere alle casse dello Stato 5,3 miliardi di euro di gettito fiscale. Le contromisure sembrano non raggiungere gli effetti desiderati: così, anche se chi viene sorpreso a comprare merce contraffatta può incorrere in una sanzione che arriva fino a 7mila euro, mercato nero e mercato grigio continuano a essere una grossa criticità per il settore del fashion.
Non a caso sono proprio le case di moda, i produttori di elettronica e i brand dell’automotive di elite a investire nell’innovazione.