Fino a oggi la stragrande maggioranza dei consumatori e delle aziende non ha dovuto fare i conti con le conseguenze del considdetto chip shortage, ovvero con la carenza dei chip. Ma nei prossimi mesi quello che è stato solo un monito degli analisti o nel peggiore dei casi l’inizio di un’emergenza per alcuni specifici verticali rischia di tradursi in una crisi di scala globale. La carenza di semiconduttori e microprocessori potrebbe infatti rallentare lo slancio della digital transformation proprio a ridosso dell’accelerazione impressa dall’esplosione dei servizi di connettività e del lavoro da remoto nell’ultimo biennio, a loro volta innescati dalla pandemia.
Gli eventi all’origine del chip shortage
Del resto il Covid è una della cause principali. Innanzitutto, è importante sottolineare che in prima battuta l’emergenza sanitaria ha costretto le imprese di semiconduttori a diminuire la produzione.
Inoltre, la pandemia ha creato una situazione anomala in diversi comparti.
In ambito IT, ad esempio, se da una parte l’enorme, improvvisa domanda di applicativi disponibili as-a-service generata dai lockdown ha portato i grandi cloud provider a potenziare in tempi rapidissimi la dotazione hardware delle server farm, dall’altra la necessità di lavorare o studiare da casa ha spinto milioni di consumatori ad ampliare o rinnovare il proprio parco dispositivi (secondo Idc nel 2020 la crescita di vendite annua è stata è stata del 13,1%, la performance migliore dal 2010).
Nel mondo dell’automotive è accaduto invece che le case automobilistiche, a causa del Covid-19, dopo la contrazione della domanda del 2020 si sono trovate a dover far fronte a un imprevisto incremento, che inziato a fine 2020 continuerà anche nell’anno in corso, con un conseguente ulteriore impatto sull’industria dei semiconduttori (in media per una vettura sono usati circa 50 chip, ndr).
A tutto questo si sommano poi altri fattori: complice l’emergenza sanitaria, le fonderie di silicio non sono riuscite ad adeguare i ritmi della produzione, mentre alcuni settori industriali caratterizzati da supply chain non ottimizzate – a partire dall’automotive – non hanno fatto scorta di componenti essenziali per la realizzazione di oggetti che non ormai possono più prescindere da connettività e intelligenza embedded. Sembrerebbe, insomma, la tempesta perfetta, considerando sopratutto che sono poche le aziende che realizzano semiconduttori, che la produzione è concentrata in Asia e che oltre il 67% dei prodotti proviene da Taiwan.
Differenziare le forniture e monitorare l’evoluzione dello scenario
Tempesta perfetta che però non ha – ancora – investito i grandi produttori di smartphone, Apple in primis. Proprio in virtù di catene logistiche estremamente efficienti, oltre che di un potere contrattuale non indifferente, i principali brand dell’elettronica di consumo hanno in qualche modo arginato gli effetti dello chip shortage nel breve termine. Ma quanto dovranno resistere? Secondo Gartner il problema, nel complesso, persisterà a livello globale fino al termine del 2021 e la situazione dovrebbe tornare a livelli normali – almeno per la maggior parte delle categorie merceologiche – solo nel secondo trimestre del 2022. Ma i limiti di capacità per l’indotto potrebbero estendersi fino alla fine dell’anno prossimo.
“La carenza di semiconduttori affliggerà la catena di approvvigionamento e limiterà la produzione di molti tipi di apparecchiature elettroniche nel corso dell’anno. Le fonderie stanno aumentando i prezzi dei wafer (le sottili fette di materiale semiconduttore, come i cristalli di silicio, con cui sono realizzati i chip, ndr) e, a loro volta, le aziende di chip stanno aumentando i prezzi dei dispositivi“, spiega l’analista di Gartner Kanishka Chauhan. Il più grande produttore al mondo di microchip, Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), ha per esempio annunciato un rincaro dei listini, fino al 10% per i componenti più avanzati e fino al 20% per quelli meno avanzati, utilizzati per l’appunto dalle case automobilistiche. “Ci sarà un aumento dei prezzi a cascata per molti dei clienti di Tsmc, che includono la maggioranza delle aziende di semiconduttori e alcuni importanti produttori di device, tra cui Apple”, dicono gli analisti di Equita, secondo i quali i margini del settore sono destinati a ridursi drasticamente. Eccezion fatta per gruppi come Infineon e StMicroelectronics, che – sempre in base ai dati in possesso di Equita – dispongono di un modello integrato, con la produzione interna che supera il 70% dei volumi. Merito di una gestione oculata degli investimenti, che non sono stati interrotti nemmeno durante l’emergenza pandemica.
“Poiché l’attuale carenza di chip è una situazione dinamica, è essenziale capire come continuerà a cambiare lo scenario. Il monitoraggio dei KPI principali, come l’allocazione di capitale, l’indice di inventario e le proiezioni di crescita dei ricavi del settore dei semiconduttori, può aiutare le organizzazioni a rimanere aggiornate sul problema e a comprendere l’evoluzione dell’intero comparto”, afferma Gaurav Gupta di Gartner. Diversificare la base dei fornitori, qualificando nuove diverse fonti di chip e partner differenti richiederà lavoro e investimenti aggiuntivi, ma secondo l’analista contribuirà notevolmente alla riduzione di un rischio che si fa sempre più vicino.
Il carattere emergenziale di questo tema ha fatto mettere in moto anche l’Unione Europea, che in linea con le politiche portate avanti dagli Stati Uniti punta ad affrancare il Vecchio Continente dalla produzione asiatica, raddoppiando dal 10 al 20% la sua quota di produzione mondiale di microchip di ultima generazione.
La crisi colpisce gli automaker: coinvolta anche Stellantis
Il primo comparto colpito dalla carenza di chip è stato quello dell’automotive. Oggi i microchip, infatti, sono alla base del funzionamento tra gli altri dei servosterzi, degli airbag, delle luci, del controllo di trasmissione. Non si tratta quindi di componenti trascurabili.
E Stellantis, la multinazionale che produce vetture per diverse case automobilistiche (tra cui Fiat, Maserati, Jeep, Peugeot e Citroen), lo sa bene, a tal punto che si è trovata nella condizione di bloccare la produzione: “Oltre agli stabilimenti come Pomigliano, che sarebbero dovuti ripartire e che invece sono rimasti chiusi, la crisi di approvvigionamento di componenti elettronici ora colpirà altri stabilimenti, a partire dalla Sevel con sede in Abruzzo”. A comunicarlo in una nota congiunta la scorsa settimana sono stati Michele De Palma, segretario nazionale Fiom-Cgil e responsabile automotive, e Simone Marinelli, coordinatore nazionale automotive per la Fiom-Cgil. “La crisi di componenti elettronici rischia anche di scatenare un effetto a catena su tutta la componentistica”.
Per quanto riguarda la Sevel in Abruzzo, non solo sarebbero in pericolo 705 posti di lavoro, ma, rimarca il sindacato, anche il futuro stesso della struttura. “Non è mai successo nella storia di Fca e Fiat che i livelli occupazionali del personale interno fossero così bassi e il numero dei lavoratori somministrati fosse invece così elevato e per un periodo così lungo”, ha spiegato il Segretario nazionale Fim Cisl Ferdinando Uliano. “Sappiamo che a livello mondiale il gruppo Stellantis decide le assegnazioni dei microchips nei vari plant”, ha detto Uliano. “È fondamentale che la direzione chiarisca se c’è stata una riduzione complessiva o se questa ha riguardato in misura maggiore gli stabilimenti italiani”.
Ma se Stellantis piange, Volkswagen e Toyota, i due principali automaker globali, non ridono. La casa di Wolfsburg ha affermato che il perdurare della crisi potrebbe costringerla a rallentare le linee di produzione durante l’autunno, con danni che si aggiungerebbero ai tagli in vigore da febbraio, mentre la società giapponese ha già confermato che a settembre ridurrà la produzione del 40%.
I prezzi delle auto nuove hanno iniziato a salire in risposta alla disponibilità limitata di modelli, ma l’impatto più evidente è stato sul mercato delle vetture di seconda mano, rispetto a cui i prezzi sono aumentati del 14% nel Regno Unito e di oltre il 40% negli Stati Uniti, dove anche Ford e General Motors stanno scontando gli effetti del chip shortage.
Apple e Samsung alle prese con il chip shortage
Il problema, come detto, si sta estendendo a macchia d’olio anche in settori fino a questo momento poco colpiti, e persino i produttori di telefoni e computer cominciano a tremare. I dirigenti di Apple hanno affermato che mentre l’impatto è stato meno grave di quanto temuto nel terzo trimestre, è destinato a peggiorare nel trimestre in corso e potrebbe colpire la produzione di iPhone. “Le società di smartphone non hanno ridotto la loro domanda di chip come ha fatto il settore automobilistico quando ci si aspettava un calo della domanda di vetture all’inizio della pandemia”, commenta Syed Alam, Managing Director, Global Lead Semiconductor Practice, di Accenture. “A tutti gli effetti, chi produce smartphone ha beneficiato di quella capacità extra, il che ha portato l’automotive a sperimentare una carenza di chip quando la domanda di auto è aumentata più velocemente del previsto. Ora che il settore automobilistico, e non solo, sta recuperando terreno, aumenta anche la concorrenza per la fornitura di semiconduttori“.
Ed è così che il numero uno di Apple, Tim Cook, è stato costretto ad avvertire il mercato che le minori forniture di silicio probabilmente influenzeranno le vendite di iPhone e iPad nell’immediato futuro, precisando che le carenze sulla supply chain non riguardano i processori ad elevate prestazioni, bensì i chip per le funzioni di routine, dall’alimentazione dei display mobili alla decodifica dell’audio.
Nemmeno Samsung, pur traendo vantaggio dalle sue dimensioni e dal suo potere contrattuale, può dirsi fuori pericolo. Anzi, secondo Dale Gai, esperto di Counterpoint Research, sarà il player che con ogni probabilità subirà l’impatto maggiore. Il colosso sudcoreano è stato infatti costretto, all’inizio del 2021, a chiudere il suo impianto di fabbricazione di semiconduttori ad Austin, in Texas dopo che una tempesta di neve aveva causato una serie di interruzioni di corrente. E più o meno nello stesso periodo gli stabilimenti in Vietnam hanno sospeso le operazioni dopo aver rilevato casi di coronavirus. È arrivato quindi il momento di scoprire se le supply chain dei due campioni del mercato sono davvero resilienti come sembrano.