Dopo anni di outsourcing su larga scala e offshoring – la delocalizzazione della produzione verso Paesi a basso costo del lavoro -, una serie di iniziative “onshoring”, sia nel comparto manifatturiero che dei servizi, ha spinto molti dirigenti a chiedersi se sia in atto una decisa inversione di tendenza.
A fare il punto della situazione un’analisi di McKinsey, che ha messo in luce come oggi rispetto alle scelte relative al sourcing le aziende abbiano una più ampia gamma di opzioni. E per riuscire a definire una strategia efficace – che si basa sempre più su fattori che creano valore e che vanno oltre il semplice costo del lavoro – è necessario definire dei gruppi di attività coerenti dal punto di vista della tipologia di approvvigionamenti e selezionare l’opzione migliore per ciascuno di essi tra offshoring, nearshoring (sedi in Paesi limitrofi), farmshoring (località a basso costo nel Paese d’origine della società), o onshoring, e cioè reintegrazione dell’attività all’interno dell’azienda.
Produzione, le attività tornano all’interno
La rassegna di McKinsey delle principali iniziative onshoring degli ultimi due anni evidenzia che esistono trend divergenti in particolare per i processi produttivi, da un lato, e per quelli IT e di business, dall’altro. La stragrande maggioranza delle iniziative onshoring infatti riguarda la produzione. Questo sviluppo è dovuto principalmente a un incremento della domanda domestica di beni come macchinari e automobili che sono tipicamente assemblati vicino a dove sono venduti. A questo si aggiunge la diminuzione di due terzi del prezzo USA di gas naturale, che dal 2008 sta allettando alcune industrie manifatturiere che utilizzano il gas come combustibile.
Per quanto riguarda, invece, l’IT e i processi di business, solo il 20 per cento degli approvvigionamenti è onshoring, infatti si preferisce ricorrere a una rete di siti offshore con l’obiettivo da un alto di ridurre i costi e i rischi di produzione e, dall’altro, aumentare l’accesso al talento. A tal proposito, McKinsey cita il CIO di Nokia Solutions e Networks (NSN), Manfred Immitzer, la cui organizzazione rimane fortemente legata all’outsourcing. Non solo: gli stessi outsourcer di NSN a loro volta utilizzano largamente risorse in offshore. Ciò fornisce un buon livello di flessibilità per NSN, evitando costi fissi e permettendo di avere lead time ridotti. Un altro manager citato, che lavora nel settore servizi finanziari, rileva che i centri servizi in quel settore ricorrono sempre più all’offshoring con l’obiettivo di avere almeno un terzo del personale aziendale delocalizzato.
La conclusione di McKinsey è che quanto sta accadendo non rappresenta una decisa inversione di tendenza, ma piuttosto un “ribilanciamento” di scelte di procurement focalizzato su fattori diversi dal costo. Ad esempio, nel caso dell’offshoring le motivazioni sono spesso l’accesso a bacini di talenti non solo locali, una maggiore flessibilità e la capacità di stabilire una rete a livello globale, che copre meglio i molteplici rischi operativi come le fluttuazioni valutarie, le modifiche normative e i disastri naturali. Nearshoring e farmshoring, d’altra parte, offrono altri tipi di vantaggi, come l’accesso a lavoratori con competenze linguistiche specifiche quando queste sono essenziali per i processi di approvvigionamento e di vendita. In quest’ottica, American International Group (AIG), noto gruppo assicurativo globale con clienti in oltre 130 Paesi, sta creando centri “nearshore” in più regioni, spiega Peter Robertson, Global Shared Services Executive dell’azienda. Il gruppo intende incrementare la percentuale di propri dipendenti nei nuovi centri, perché il nearshoring permette anche di gestire attività che richiedono capacità linguistiche diverse dall’inglese, consentendo la riallocazione delle attività più in alto nella catena del valore.