Da anni Stefano Micelli, oggi docente di International Management all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è una delle voci più coinvolte e autorevoli nell’interpretare le tendenze del mondo delle piccole e medie imprese italiane, con una particolare attenzione per il Nord-Est.
Nei suoi due libri più recenti (“Il futuro artigiano” del 2011, e “Fare e innovare” dell’anno scorso), Micelli spiega in estrema sintesi che in quest’epoca di rivoluzione digitale, internet of things e “makers”, il “saper fare”, cioè la cultura dell’innovazione e della personalizzazione attraverso l’artigianalità, che è sempre stata un “unicum” delle PMI italiane, può aprire opportunità insperate per riaffermare il Made in Italy sui mercati internazionali.
Per anni nelle università, dice in pratica Micelli, abbiamo insegnato che il valore economico nasce da conoscenze scientifiche astratte e da attività di analisi, e intanto il lavoro artigiano ha assunto una connotazione di vecchio, di attività piccole e in via di esaurimento. Invece le PMI del Made in Italy si sono sempre distinte nel mondo proprio per l’innovazione e la personalizzazione attraverso il “fare”, attraverso altissime capacità artigianali. E ora molte realtà di successo da centinaia di milioni o miliardi di euro, come Bottega Veneta, Geox, Gucci o la francese Hermes, puntano fortemente, come messaggio di comunicazione, proprio sull’artigianalità.
L’Industria 4.0, cioè la digitalizzazione del manufacturing, spiega lo studioso citando come esempio la stampa 3D, sta infatti “sparigliando le carte”, perché può ridurre fortemente, e in alcuni casi addirittura rovesciare, il gap di convenienza economica tra il modello della produzione di massa, della standardizzazione e delle economie di scala, e quello della produzione artigianale e su misura.
L’Italia quindi può sfruttare un’occasione storica, facendo leva appunto sul patrimonio di conoscenze pratiche, di “saper fare”, accumulato nelle sue piccole e medie imprese (non parliamo solo di alimentare, fashion e lusso, sottolinea Micelli: persino nella produzione delle macchine utensili c’è tantissima artigianalità), a patto di saperlo coniugare con competenze manageriali, di marketing e di tecnologia digitale.
In uno scenario in cui il digitale sta entrando in modo pervasivo nei processi produttivi e logistici, favorito da programmi nazionali di incentivazione come il Piano Calenda varato dal Governo italiano lo scorso settembre, qualsiasi realtà manifatturiera italiana è chiamata a ripensare le proprie attività e processi. Le grandi imprese ovviamente, ma anche le PMI “artigiane”.
«Le prime sanno bene che devono investire per digitalizzarsi, se vogliono restare sui mercati internazionali dove spesso sono già presenti – spiega Micelli in una recente intervista con ZeroUno -. Le PMI del Made in Italy di matrice artigiana devono invece riuscire a mettere insieme cultura digitale e cultura del saper fare, modernizzandosi ma rispettando la tradizione che i potenziali compratori si aspettano». Un esempio citato da Micelli è il programma “Botteghe Digitali” di Banca Ifis Impresa, di cui è uno degli ideatori.
Un esperimento di “Manifattura 4.0”
Nato nel 2016 come format di racconto dell’artigianato italiano, Botteghe Digitali si è evoluto strada facendo in un esperimento di “manifattura 4.0”, in cui le 4 imprese artigianali selezionate (Sartoria Concolato, Occhialeria Artigiana, Lefrac, e Studio Cassio) sono state sostenute in un percorso di definizione del business plan, analisi e re-design del prodotto e degli spazi di lavoro, e ripensamento della presenza digitale e sui social media. Visti i risultati, il progetto è tuttora in corso quest’anno con una seconda edizione che coinvolge altre 11 piccole imprese, selezionate tra oltre 300 candidate, che un team di specialisti delle varie funzioni aziendali – dall’amministrazione e finanza fino al marketing e al design di prodotto – sta assistendo con linee guida e consulenze per innovare e rendere più efficienti le attività grazie alle tecnologie digitali. Queste “best practice” tra l’altro sono a disposizione anche di realtà che non partecipano direttamente al progetto attraverso un’apposita piattaforma web.
Botteghe Digitali, ha spiegato Micelli, rappresenta un esperimento unico nel panorama italiano. «Di solito si pensa a Industria 4.0 come prerogativa della grande impresa: questo programma punta invece a fornire nuovi strumenti tecnologici e approcci organizzativi per proiettare il “saper fare italiano” nella competizione globale a prescindere dalle dimensioni aziendali».
Il concetto alla base di tutto questo è che la costruzione di competenze avanzate ad hoc è il vero fattore critico per il successo di Industria 4.0 in Italia. «Il Piano Calenda era certo importante al fine di rilanciare gli investimenti, caduti dopo la crisi del 2008 di 20-25 punti, per contrastare l’invecchiamento dei macchinari e rivitalizzare i processi – osserva Micelli -. Per questo è stato giusto creare un sistema di incentivi che accelerasse l’evoluzione tecnologica delle imprese, e i primi segnali sembrano positivi. Ma le tecnologie generano aumenti di produttività se, e solo se, abbinate a un capitale umano e a competenze al livello della sfida».
Il sistema della formazione ha quindi un ruolo decisivo, e infatti il Piano Calenda si pone come obiettivi in quattro anni 200mila studenti universitari, 1400 dottorati di ricerca e 3000 manager specializzati sui temi industria 4.0, nonché un raddoppio degli studenti iscritti a istituti tecnici superiori orientati in questo campo, e la nascita di alcuni Competence Center nazionali.
È una nuova generazione di “competenze manifatturiere digitali” che va creata nel rispetto delle specificità della produzione Made in Italy, sottolinea Micelli nell’intervista. Per questo il modello di formazione non può basarsi solo su pochi competence center, legati all’università e alla ricerca, ma deve puntare su una diffusione capillare fin dal livello degli istituti tecnici e professionali, con percorsi didattici completamente diversi da quelli di trent’anni fa.
«Serve una didattica nuova per formare ragazzi che entrino nelle imprese non per affiancare qualcuno che sa già cosa fare, ma per innovare insieme in un processo di ibridazione fra cultura del fare e cultura digitale: un esempio sono le esperienze di alcuni ITS (Firenze, Parma, Conegliano) ispirate alla formazione tecnica tedesca, che prevede un’interazione “gomito a gomito” con le imprese».