L’Intelligenza artificiale è un sistema “a lenta combustione” destinato a portare enormi benefici economici a chi – singole imprese o intero Paese – sta puntando oggi sull’innovazione, investendo risorse adeguate. Viceversa, chi non sale subito sul treno è destinato a rimanere indietro, perdendo terreno rispetto alla concorrenza. È la tesi del nuovo e dettagliato report dedicato all’impatto dell’Intelligenza Artificiale di McKinsey Global Institute dal titolo “Notes from the frontier: Modeling the impact of AI on the world economy”, che ha misurato, attraverso una serie di ipotesi e simulazioni, il grado di adozione delle tecnologie AI da parte di aziende e Paesi, stimandone i ritorni economici. Secondo lo studio, entro il 2030 l’adozione diffusa dell’AI potrebbe generare per l’economia a livello globale un valore addizionale pari a 13.000 miliardi di dollari, che corrispondono a un 1,2% di crescita addizionale annua per il PIL mondiale. Ne abbiamo parlato con Marco Piccitto, Senior Partner di McKinsey & Company.
Who's Who
Marco Piccitto
Senior Partner McKinsey & Company
Quali sono gli ambiti applicativi che trainano la crescita dell’AI?
Dalle analisi effettuate dal nostro McKinsey Global Institute sui diversi casi di applicazione dell’intelligenza artificiale risulta che queste innovazioni possono avere un impatto significativo soprattutto nelle aree marketing e vendite, gestione della supply chain e produzione.
Gli investimenti in AI sono in rapida crescita, ma ancora in gran parte concentrati negli Stati Uniti e in Cina e tra le Big Tech. Ad esempio, giganti tecnologici come Google e Baidu hanno speso per l’AI tra i 20 e i 30 miliardi di dollari nel 2016. Inoltre, nel 2017 sono stati investiti circa 15 miliardi di dollari in startup in ambito AI, quasi la metà di questa somma è andata in Cina, mentre il 38% è stato investito negli Stati Uniti.
Secondo la vostra esperienza, chi sono le figure manageriali che spingono verso l’adozione?
L’adozione delle nuove tecnologie come l’AI deve essere sponsorizzata in primis dal top management delle aziende, che deve credere nei benefici concreti che queste possono portare al proprio business. Tuttavia, una reale ed efficace trasformazione digitale si fonda su una cultura dell’innovazione condivisa da tutti i livelli aziendali: si tratta di un percorso di change management complesso e articolato, che richiede appunto un vero e proprio cambiamento culturale. Un approccio basato sul lifelong learning è fondamentale per accompagnare le proprie persone nell’acquisizione delle competenze necessarie nel nuovo corso.
Chi sono i first mover?
Nella simulazione illustrata nel nostro report “Notes from the AI frontier: modeling the impact of AI on the world economy”, la categoria delle aziende front-runner (quelle che assorbiranno l’AI entro i prossimi 5-7 anni) include realtà che si caratterizzano per avere una solida base digitale di partenza, una maggiore propensione a investire nell’AI e una maggiore consapevolezza dei vantaggi economici di questa tecnologia.
A livello Paese, abbiamo individuato tre gruppi che seguono Stati Uniti e Cina, i leader di mercato in termini di adozione dell’AI. Si tratta di Paesi tecnologicamente maturi (come Corea del Sud e Svezia), quelli in condizione intermedia e altri a cui mancano ancora i fondamentali. L’Italia si trova nella seconda categoria e, per i prossimi 12 anni circa, potrebbe sfruttare l’AI per alimentare una crescita potenziale annua del PIL pari a circa l’1%.
Quali prerequisiti tecnologici devono avere le aziende per trarre vantaggio da queste applicazioni?
La presenza di un’infrastruttura tecnologica adeguata, che costituisce la spina dorsale per un’efficace implementazione delle innovazioni, è certamente importante. Bisogna comunque tenere presente che, anche quando esistono i prerequisiti tecnologici, le aziende non possono generare valore dall’applicazione dell’AI e accelerare la trasformazione senza le persone e le competenze giuste. L’innovazione deve inoltre essere applicata lungo tutta la catena del valore e in tutti i processi aziendali.
Quali sono le principali difficoltà e ostacoli da superare?
Il contributo economico dell’intelligenza artificiale tende a essere visibile negli anni. Gli investimenti iniziali, il continuo perfezionamento delle tecniche e delle applicazioni e i significativi costi di transizione potrebbero scoraggiare e limitare l’adozione delle tecnologie AI da parte delle imprese, specie quelle più piccole.
Secondo le nostre analisi, entro il 2030 il contributo dell’AI alla crescita potrebbe essere più di tre volte superiore rispetto a quello degli anni precedenti al 2025. Sarebbe dunque un errore di valutazione interpretare questo sistema “a lenta combustione” come prova che i benefici dell’AI saranno limitati. Al contrario, l’entità dei benefici per le aziende che si stanno già muovendo verso queste tecnologie aumenterà sempre più negli anni a discapito di quelle realtà che le adotteranno in misura limitata o nulla.
Lo studio stima un ritorno economico positivo dall’investimento in tecnologie AI a livello di Sistema Paese e di singola impresa. Cosa emerge?
Dalle nostre simulazioni emerge che l’AI potrebbe contribuire a generare un output economico addizionale di circa 13 trilioni di dollari entro il 2030 o, in termini di PIL, di un contributo dell’1,2% annuo alla crescita globale. Il modello si applica sia a Paesi sia ad aziende. Il ritmo di adozione dell’AI da parte delle imprese, e la priorità che daranno agli obiettivi di innovazione e di efficienza, avranno probabilmente un forte impatto sui loro risultati economici: i front-runner potrebbero potenzialmente raddoppiare il proprio flusso di cassa entro il 2030. Al contrario, le aziende che non adotteranno tecnologie AI o che non le avranno completamente assorbite potrebbero subire un calo fino al 20% del loro flusso di cassa rispetto ai livelli attuali.
C’è molta paura per l’impatto di queste tecnologie sull’occupazione e forse anche molti pregiudizi. Qual è la realtà?
La realtà è che in futuro alcuni lavori saranno meno richiesti e altri ne nasceranno. Le nostre simulazioni indicano che l’impatto netto sull’occupazione entro il 2030 risulterà pressoché neutro a livello globale. La grande sfida sarà gestire lo “skill shift”: la quota dei lavori non ripetitivi e che richiedono competenze digitali elevate potrebbe passare dal 40 a oltre il 50% del totale degli impieghi del mercato entro il 2030, mentre i lavori caratterizzati da ripetitività e che richiedono competenze digitali ridotte potrebbero diminuire dal 40 al 30% nello stesso periodo. Nei prossimi anni, dunque, le persone dovranno adattarsi a un nuovo modo di lavorare e aggiornare le proprie competenze per dedicarsi a mansioni a maggior valore aggiunto. Le aziende saranno attori fondamentali nella gestione di questa fase di profondo cambiamento.