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Purpose Marketing, le strategie per attrarre e fidelizzare i consumatori conscious

L’hype sul tema del purpose è stato molto forte negli ultimi anni ed è fondamentale ripensare alla vera essenza del concetto di scopo, superando l’ottica delle dichiarazioni di intenti e dei formalismi per focalizzarsi sugli elementi che realmente contraddistinguono l’azienda e la differenziano sul mercato

Pubblicato il 30 Gen 2023

Purpose Marketing

Un passaggio non banale quello che oggi coinvolge il CMO in prima persona, chiamato a suggerire al CEO come incorporare il purpose nella strategia di business, come garantire la generazione di valore tangibile per i clienti (e non solo loro) e soprattutto come misurare questo impatto.

Cosa è il Purpose Marketing

Un brand guidato dall’imperativo del purpose mette i suoi valori più alti, il suo “why” davanti a tutto. Sono valori nei quali il consumatore si proietta e per i quali decide di acquistare, e che determinano non solo come l’azienda comunica, ma soprattutto come gestisce il suo business, come si relaziona con i suoi clienti plasmando per loro delle purpose experience uniche.

Ecco perché non ha più senso parlare di Purpose-driven Marketing ma piuttosto di una Purpose-driven Strategy, di cui il CMO è il punto di riferimento. La capacità di comunicare e tenere vivi nel cliente quei valori che sono per lui irrinunciabili non sono più (o non sono solo) una prerogativa dei marketer. Tutta l’organizzazione deve essere coinvolta e ingaggiata per garantire autenticità e coerenza che, come sappiamo bene, sono sotto la lente del consumatore nel momento in cui compie le sue scelte d’acquisto.

Gli esperti di Harvard Business Review suggeriscono un percorso in quattro step:

Identificare le funzioni e i dipartimenti interni che hanno un interesse diretto nel purpose

I responsabili delle diverse funzioni pretendono che i loro interessi siano adeguatamente considerati nell’identificazione del purpose. Volendo semplificare al massimo, le aree maggiormente coinvolte sono la demand generation (vendite, marketing), l’employee engagement (HR), la governance (affari legali, investor relations, corporate communications) e la business strategy (finance, risk management). Il primo passo, per il CMO, è istituire un gruppo di lavoro con i rappresentanti di ciascuna di queste funzioni.

Collegare il purpose alla strategia

Il secondo passaggio consiste nel rivalutare la definizione del purpose alla luce dei fattori che avranno il maggiore impatto sul successo dell’azienda nei prossimi anni. Il fattore chiave per il business è l’acquisizione di nuovi clienti, l’espansione internazionale oppure l’innovazione di prodotto? Qual è la capacità di sostenere strategie premium price? Tutte questioni da valutare attentamente.

Superare l’ottica dei silos

Il gruppo di lavoro dovrà riconoscere che il purpose non può essere autentico se è motivato solo da un opportunismo tattico. Il passo successivo è trovare un’idea che superi gli interessi particolari di ciascuna funzione.

Valutare l’impatto sull’organizzazione

La fase finale del processo è senza dubbio la più difficile: le nuove modalità d’azione che influenzano il purpose devono essere contemplate all’interno di tutte le decisioni aziendali e interiorizzate nella cultura organizzativa.

Purpose Marketing, le sfide per i CMO

Nonostante se ne senta parlare spesso nei meeting strategici, il purpose rimane ancora un argomento particolarmente divisivo, fonte di dibattiti animati e polarizzazioni. Questo è dovuto in particolare alla difficoltà per il management di integrare e garantire coerenza a quelle che sono le tre dimensioni del purpose:

  • Causa: il principio etico, sociale o ambientale cui l’azienda aspira
  • Cultura: l’intento con cui è gestito il business
  • Competenza: il valore che crea il prodotto/servizio

È proprio questa la principale sfida che i CMO si trovano ad affrontare oggi. Spesso incaricati dal CEO di riplasmare le strategie aziendali sul concetto di scopo, devono essere in grado di mediare e soddisfare diverse esigenze opposte contemporaneamente. Per il marketing, infatti, il purpose deve aumentare la loyalty e conquistare nuovi clienti. Per il finance deve tradursi in un miglioramento delle performance aziendali. Da parte delle Direzioni HR, invece, è visto come una calamita per i migliori talenti.

Il risultato finale è inevitabilmente frutto di compromessi. Ecco i principali punti attenzione:

Gap causa-competenza

Questo disallineamento si verifica quando la connessione tra la natura dell’attività e la causa sposata non è ovvia. E questo è un pericolo soprattutto per le aziende che hanno avviato la propria attività legandosi a un claim incisivo e a valori che oggi non sono più “nelle corde” del consumatore.

I social network, che oggi fondano il proprio business soprattutto sui ricavi pubblicitari ma sono nati con la missione di costruire relazioni, ne sono un esempio perfetto.

Gap competenza-cultura

Questo disallineamento si verifica quando un’azienda crea valore per i clienti ma non riesce a fare altrettanto per i collaboratori, i business partner, i finanziatori. Alcuni grossi nomi dell’e-commerce, per esempio, storicamente godono di un’ottima reputazione presso i clienti ma vengono spesso criticati per le condizioni di lavoro dei loro dipendenti o per i margini esigui e le condizioni che applicano ai partner di filiera.

Gap cultura-causa

Questo disallineamento si verifica nel momento in cui l’azienda ha un purpose chiaramente indicato e correlato a una causa, ma non riesce a ingaggiare a dovere i propri collaboratori. Questa criticità può essere risolta lavorando sulla cultura, valorizzando meglio il contributo che i singoli membri dell’organizzazione offrono nel raggiungere il purpose oppure rivalutando l’autenticità dello scopo aziendale.

Gli imperativi per i marketer

Le aziende che optano per una purpose-driven strategy mettono in atto un cambiamento epocale, che coinvolge tutti i settori e i reparti obbligando a ripensare ogni fase della relazione con il cliente, dall’ideazione del prodotto alla spedizione.

A livello pratico, i CMO hanno la responsabilità di orchestrare internamente le diverse funzioni aziendali ed esternamente l’ecosistema di business partner, per garantire che tutti agiscano guidati dal purpose.

Questo significa:

  1. Assicurarsi che il purpose sia rilevante per il consumatore. Il CMO deve comprendere come l’azienda e i suoi brand possono aiutare il cliente a raggiungere il suo personale purpose e allineare questa visione alle strategie di business.
  2. Diffondere la cultura del purpose tra gli altri CxO. La direzione di tutte le funzioni e aree aziendali deve convergere verso il purpose, per garantire quella coerenza che è fondamentale per ingaggiare e rassicurare il cliente.
  3. Considerare i clienti più che semplici consumatori. I consumatori sono stakeholder attivi che contribuiscono alla realizzazione del purpose. Per questo è fondamentale utilizzare dati e insight per capire a cosa danno valore e collegare queste evidenze al purpose.

Purpose Marketing: una scelta obbligata?

Il purpose, come visto fin qui, abbraccia ogni branca del business. Al CMO e al suo team è affidato il compito (fondamentale) di comprendere qual è il percepito del cliente e soprattutto quali sono i valori su cui fonda i propri modelli di consumo e scelte d’acquisto.

Sincerità, autenticità, coerenza, pragmatismo e credibilità sono le parole chiave. Il cliente deve avere degli elementi concreti per credere che il brand si impegnerà veramente a garantire il rispetto dei valori identificati nel purpose. Il purpose comunicato deve quindi trovare conferma, credibilità e concretezza in quello realizzato. Non è possibile incentrare le strategie di comunicazione sul tema della sostenibilità, per esempio, se questa riguarda solo una specifica linea di prodotti o una quota minima di servizi.

Un aspetto particolarmente critico è poi legato alla “misurabilità” del purpose. I CMO devono anche essere in grado di dimostrare, dati alla mano, gli sforzi compiuti per raggiungere lo scopo identificato.

I consumatori pretendono chiarezza dai brand e il terreno di sfida oggi è proprio quello del pragmatismo, la cosiddetta ownability.

Capire come è possibile trasformare il purpose in un valore tangibile, che possa essere riconosciuto e acquistato dal consumatore, diventa quindi la questione più importante per i marketer.

I vantaggi per le aziende 

L’azienda ha l’opportunità di rendere più solido il business interiorizzando e facendo propri principi che, di fatto, assicurano una maggior resilienza rispetto agli shock ambientali, economici e sociali.

Se si sposano valori sinceri e autentici è possibile svincolarsi dalle fluttuazioni dell’agenda globale che mettono in primo piano tematiche diverse, dalle crisi geopolitiche all’emergenza ambientale. Il purpose deve, quindi, essere anche essere duraturo. Vietato cavalcare le mode del momento, adattando valori e obiettivi legati al sentiment dell’opinione pubblica, perché il rischio è di perdere credibilità e, di conseguenza, la fiducia non solo del consumatore ma di tutta l’audience potenziale.
Esprimere in modo chiaro i propri valori e prendere posizioni nette su temi etici particolarmente divisivi significa, per l’azienda, assumersi il rischio di perdere una parte dei propri clienti attuali e futuri.

La contropartita, però, è che con il pubblico che condivide quei valori si instaura un legame particolarmente solido. Un legame emozionale, non puramente funzionale, perché l’azienda che compie una scelta etica dà prova della sua sincerità e soprattutto della sua trasparenza. Ispira, così, fiducia e lealtà che il cliente è disposto a valorizzare con le proprie scelte di consumo.

Per molti ma non per tutti

Nessuna azienda è, però, obbligata a esporsi rispetto ai grandi valori che impattano sul quotidiano dei suoi clienti. Esistono realtà che, per la peculiarità dei brand, le caratteristiche dell’organizzazione o dei prodotti, difficilmente sono in grado di identificarsi in uno specifico purpose.

Se si decide di imboccare questa strada per un puro calcolo opportunistico o perché “è quello che vuole il mercato”, l’esito è spesso fallimentare. Se si preferisce evitare di esporsi rispetto ai grandi temi che polarizzano l’opinione delle persone, o non si è in grado oggettivamente di farlo, meglio lasciar perdere. Ricostruire la credibilità persa su valori alti e spesso molto divisivi è un percorso difficile e costoso, che può mettere in forse il futuro stesso dell’azienda.

Gli esempi illustri

Patagonia

Quando si parla di strategie purpose-driven, il pensiero va subito al brand Patagonia, che riempie le pagine della letteratura marketing su questo tema. L’azienda nasce già con l’idea di fare un business più etico ed ecologico sposando logiche “profit with purpose” per creare un mercato, quello del cotone organico, che prima non c’era.

A un certo punto della sua vita, però, Patagonia ha rivoluzionato totalmente il modello di business incentrandolo su logiche di “purpose with profit”. È partita, dunque, dallo scopo per definire il suo futuro sul mercato. E nel farlo ha rischiato di perdere una quota rilevante di clienti convinta del fatto che quelli rimasti fedeli sarebbero stati disposti a pagare di più per godere di una purpose experience più valoriale e connessa con l’azienda.

Patagonia ha plasmato la propria identità su un set di valori che vengono percepiti come autentici e rilevanti. Proprio come i suoi prodotti, che sono considerati parte integrante del suo purpose. I suoi clienti non acquistano un capo d’abbigliamento tecnico ma sono convinti di supportare un progetto che punta a migliorare il mondo in cui viviamo.

Dove

Anche Dove è un ottimo esempio di brand che si è rifocalizzato sul concetto di purpose. Lo scopo dell’azienda che produce saponi e deodoranti è aiutare le donne in tutto il mondo a migliorare la propria autostima promuovendo un concetto di bellezza accessibile e autentica. Un concetto che si discosta notevolmente dai canoni della perfezione proposti dagli altri brand del beauty.

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