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Il neuromarketing compie 20 anni: ecco le tecniche per fissarsi nella mente del consumatore

Sono i processi inconsci, molto più di quelli razionali, a determinare le decisioni di acquisto e la percezione del valore di un’azienda, di un prodotto o di una campagna di comunicazione. Vediamo che cosa ci insegna la disciplina delle neuroscienze e come si può applicare per dare valore alla relazione col brand

Pubblicato il 13 Dic 2022

Neuromarketing

Perché un consumatore sceglie un certo prodotto o apprezza un brand più di un altro? La risposta va cercata nei meccanismi più profondi della mente.

Lo insegnano le tecniche del neuromarketing, un modo innovativo di fare comunicazione; anzi una vera e propria disciplina derivata dalle neuroscienze che prova a “misurare l’intangibile” cogliendo i meccanismi del cervello che si traducono in comportamento per attuare strategie di marketing più efficaci.

Il termine neuromarketing è stato coniato da Ale Smidts, professore della Rotterdam School of Management dell’Università Erasmus, e uno dei massimi teorici dell’identificazione organizzativa e del neuromarketing.

La genesi del neuromarketing

Smidts propose il neologismo in una lezione tenuta il 25 ottobre del 2002, esattamente 20 anni fa. La ricorrenza è stata celebrata quest’anno dall’Associazione Italiana Neuromarketing (Ainem) con una neuromarathon partita dall’Italia per estendersi nel corso di 24 ore in Europa, Stati Uniti, Oriente e Africa.

Ainem, l’Associazione italiana di neuromarketing, è nata nel 2017 da un gruppo di docenti e esperti della disciplina per cercare di rendere il neuromarketing alla portata delle imprese e del business in Italia.

Promossa da Francesco Gallucci e da Caterina Garofalo, Ainem si propone di essere l’anello di congiunzione tra la ricerca accademica e il mondo del business e del sociale.

Come ottenere l’attenzione del consumatore

Il neuromarketing ora è uscito dalla fase pionieristica ed è entrato nelle prassi dei brand più attenti, consapevoli che la competizione per ottenere l’attenzione del consumatore si gioca in 1-2 secondi, come sottolineano Francesco Gallucci, professore di Marketing delle Emozioni presso il Politecnico di Milano, e Caterina Garofalo, esperta di comunicazione e marketing emozionale e presidente di Ainem.

Il nostro cervello sceglie in pochi istanti individuando un particolare o una differenza che si fa notare ed è qui che le aziende possono lavorare con gli strumenti del neuromarketing. Meglio ancora se ne sanno fare una vera strategia di relazione con il cliente.

Che cosa è il neuromarketing

Il neuromarketing è il complesso delle tecniche di marketing che sfruttano le scoperte e le metodologie delle neuroscienze per determinare le forme di comunicazione più efficaci per influire sui processi decisionali del consumatore.

«Il neuromarketing ha dimostrato che oggi non bisogna più vendere prodotti, ma sedurre i clienti», ha detto Martin Lindstrom, uno dei massimi esperti mondiali di neuromarketing e consulente di brand.

Con il neuromarketing le imprese possono studiare la capacità di evocare una risposta emotiva tramite uno spot, una promozione, un’iniziativa, un logo, uno slogan, un colore, un odore o anche un’associazione con una celebrità.

Una disciplina ibrida

«Il neuromarketing è un nuovo strumento per conoscere che cosa pensano, come decidono e che cosa provano le persone nei vari touchpoint in cui si relazionano col brand – afferma Caterina Garofalo, Presidente e Co-fondatrice di Ainem -. È nato per effetto delle nuove tecnologie, che hanno moltiplicato i canali di contatto e le voci che dialogano col consumatore, ma anche grazie all’unione tra le neuroscienze e altre discipline, come psicologia cognitiva, scienze comportamentali, filosofia, semiotica, psicolinguistica e neurobiologia, che stanno portando nuove conoscenze al marketing introducendo un nuovo modo di misurare l’intangibile. Tutte condividono l’obiettivo di conoscere la persona nella veste di cliente che ha una relazione con il brand e il prodotto ed è oggetto delle strategie per la Customer Experience».

«Martin Lindstrom, impiegando la risonanza magnetica, ha dimostrato che il processo che ci porta ad apprezzare qualcosa e a prendere una decisione è irrazionale e inconsapevole per l’85% – afferma il professore Francesco Gallucci, co-fondatore di Ainem -. Nel marketing è intangibile tutto l’aspetto emozionale e dell’experience e il neuromarketing permette di misurarlo”.

Le domande di un marketing efficace sono complesse: che cosa prova il consumatore a contatto con questo prodotto, quale esperienza gli fa vivere? Per la comunicazione si apre una nuova era di efficacia.

Gli obiettivi del neuromarketing

Il neuromarketing studia le risposte che si attivano a livello cerebrale nel momento in cui un potenziale cliente viene esposto a stimoli sensoriali quali una pubblicità, il packaging di un prodotto o il logo di un brand.

L’obiettivo è progettare strategie sempre più sofisticate, per analizzare l’emozione degli utenti e capire i meccanismi irrazionali che guidano le loro preferenze e le loro scelte.

Un esempio è quello illustrato da Martin Lindstrom nel suo libro “Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto”. Lo studioso ha analizzato, con il contributo di altri esperti, la reazione di un gruppo di fumatori alla vista dei moniti presenti sui pacchetti di sigarette.

I fumatori sono stati prima intervistati in un sondaggio e poi collegati ad un apparecchio di imaging biomedico. Si è visto così che, a parole, i fumatori si dicevano preoccupati e spinti a smettere, ma nella loro mente il desiderio di fumare era accresciuto da quelle scritte. Lindstrom ha evidenziato come le ricerche di mercato possono riprodurre una realtà falsata: le decisioni di acquisto sono inconsce, o comunque le persone faticano a esprimersi con piena sincerità.

Il ruolo dell’inconscio

«Non è possibile chiedere alla gente la loro impressione su un odore o una sensazione tattile o un sapore – ha detto Lindstrom -. È difficile verbalizzare una sensazione. Nel 2008, ho condotto il più grande esperimento di neuromarketing nel mondo usando la risonanza magnetica funzionale per la scansione del cervello dei consumatori per capire cosa succede veramente nella nostra parte inconscia del cervello“.

L’idea di base di questo esperimento è che se siamo in grado di dare un senso alla parte inconscia del nostro cervello – che gestisce l’85% di tutto quello che facciamo tutti i giorni – allora saremo più vicini a scoprire che cosa sentiamo veramente quando viviamo e acquistiamo cose tutti i giorni. E sulla base di questo potremmo forse creare campagne pubblicitarie che abbiano un po’ più di successo di quanto non ne abbiano oggi.

Gli strumenti

Per indagare la mente il neuromarketing sfrutta i sistemi di risonanza magnetica funzionale (o fMRI) e l’elettroencefalografia (EE). Entrambi sono classificati come strumenti di brain imaging, che realizzano una “scansione” del cervello mettendo in evidenza le aree attivate sotto l’effetto di un particolare stimolo.

Vengono usate anche le tecnologie di eye-tracking (il monitoraggio dei movimenti oculari) o, semplicemente, l’elettrocardiogramma (ECG) e la risposta galvanica della pelle (GSR), che misura le variazioni elettriche della pelle in seguito al verificari di specifici eventi.

L’analisi di queste informazioni porta a capire quali campagne promozionali, colori o frasi funzionano meglio e aiuta le aziende ad agire di conseguenza. Si lavora prima su prototipi e simulazioni per poi passare al test in ambiente naturale e partire, infine, con la campagna di comunicazione o il lancio commerciale.

Perché ci serve il neuromarketing?

«La pubblicità non funziona più – ha detto Lindstrom -. I marketer spendono una quantità enorme di soldi e la gente non ricorda veramente nulla. Ovviamente, qualcosa succede, archiviamo le informazioni da qualche parte. Il neuromarketing aiuta a capire dove vanno questi messaggi e come influiscono su di noi, ed è probabilmente la migliore e l’unica scelta che abbiamo in questo momento nella comprensione del consumatore e del futuro della pubblicità».

C’è un importante fattore che causa la disattenzione del consumatore: l’information overload della società odierna, come già faceva notare Herbert Simon, Premio Nobel dell’economia nel 1978.

Inquinamento cognitivo e Bounded Rationality

Simon è stato il teorico della saturazione del potenziale attenzionale, dell’inquinamento cognitivo e della Bounded Rationality, secondo cui le persone non compiono scelte del tutto razionali perché intervengono sia limiti cognitivi (non abbiamo tutte le conoscenze necessarie per decidere) sia sociali (legami personali e sociali tra le persone).

«Il nostro cervello è progettato, quando ci troviamo di fronte ad una decisione, per valutare e soppesare emotivamente ciascuna opzione. Nessuna decisione nella vita prescinde mai completamente dall’emozione», ha detto lo studioso di intelligenza emotiva Daniel Goleman.

Un esperimento molto recente è quello condotto dal laboratorio di neuromarketing B Side sul suo logo.

B Side ha sottoposto a un campione una rosa di 10 loghi: per tutte le alternative sono state condotte le analisi del comportamento visivo e sono stati calcolati gli indici di interesse, di sforzo cognitivo, di memorizzazione e di visibilità di nome e payoff.
Gli strumenti utilizzati sono stati l’eye tracker, l’elettroencefalografo (EEG) e un questionario finale.

È emerso che il 58% del campione ha apprezzato il logo blu di B Side inconsapevolmente, contro il 37% che lo ha scelto dichiarandolo nel questionario scritto, confermando che la preferenza non conscia ottenuta con gli strumenti del neuromarketing è diversa da quella conscia avuta con il classico questionario.

Come si fa il neuromarketing: il marker somatico

Un modo per fare neuromarketing è, ovviamente, pensare in modo non convenzionale e creativo per rompere gli schemi e seguire nuove direzioni. L’obiettivo, secondo Lindstrom, dovrebbe essere per ogni marchio e prodotto creare dei marker somatici, «quella piccola idea che in realtà è così grande da trasformare un brand. E non deve costare una fortuna».

L’ipotesi del marcatore somatico, formulata da Antonio Damasio e ricercatori associati, propone come tesi che i processi emotivi siano la vera guida del comportamento e, in particolare, del processo decisionale.

La teoria si basa sull’associazione fra certe situazioni complesse e le risposte somatiche viscero-emozionali associate a quelle situazioni rilevate dal cervello limbico e trasmesse alla corteccia somatosensoriale e insulare dove si formerebbe una rappresentazione della modificazione dello schema corporeo legata alla reazione emotiva.

La riattivazione sensoriale

Il marcatore contraddistingue decisioni sia positive sia negative, funziona come segnale che permette all’individuo di compiere scelte vantaggiose ed è il risultato dell’arousal (risveglio) che si attiva come traccia successiva a ciascuna decisione presa, associata al suo specifico valore (ricompensa o punizione, beneficio o costo).

La riattivazione somatosensoriale indurrebbe una sensazione fisica capace di fornire un’informazione probabilistica sulla natura favorevole o sfavorevole dello stimolo emotivo attuale e, quindi, aiuta a prendere una decisione al riguardo.

Traslando quest’ipotesi nel campo marketing, Lindstrom chiama marker somatico «una cosa così radicale che non la dimenticherete mai». Affinché un messaggio pubblicitario arrivi a destinazione con il marker somatico, servono tre cose, secondo lo studioso.

  1. La prima è generare un maggiore impegno emotivo con amici e familiari come ambasciatori per certe marche e prodotti.
  2. La seconda è creare coinvolgimento emotivo nel modo in cui vengono posizionati i marchi, in modo che le persone sentano che i brand li rappresenta, creando una sorta di aspirazione.
  3. La terza è distinguersi dalla folla in un modo professionale.

Le potenzialità di applicazione del neuromarketing

Questo terzo punto chiarisce un fatto: il fascino del neuromarketing non deve ingannarci, la sua creatività out-of-the-box è anche una scienza, e la scienza non si improvvisa.
Le potenzialità sono, però, enormi per le imprese dell’era digitale che vogliono avere un impatto nella comunicazione col cliente su tutti i canali. «Il neuromarketing è un cambiamento dirompente, ma in modo positivo –  sottolinea Gallucci -. Obbliga i decisori ad assimilare nuovi modelli. Fin dall’inizio degli Anni 2000 i grandi brand, anche italiani, hanno seguito la strada della sperimentazione nel marketing, tanto che si arriva a parlare di neuromanagement», ovvero l’impiego delle neuroscienze cognitive, insieme alla tecnologia, per analizzare questioni economiche e gestionali.

«Oggi stiamo passando dalla sperimentazione alla messa a sistema – prosegue Gallucci -. Il modello è acquisito, funziona ma deve diventare uno standard interno per permette di svolgere correttamente le attività necessarie. I manager visionari ci sono, anche in Italia, e non solo nelle grandi imprese».

Approcci al neuromarketing in azienda: la metodologia Ainem

La metodologia di neuromarketing brevettata Ainem e proposta alle imprese parte dall’ascolto della voce del cliente e del consumatore in tutti i canali di comunicazione con l’azienda per capire che cosa pensa, quali emozioni esprime e quali parole usa.

L’analisi di tutti questi dati permette di cogliere la percezione più diffusa del brand, le parole chiave della conversazione con il marchio, le immagini associate ai valori dell’azienda e altri elementi analoghi.

Il tutto viene filtrato da una metodologia di text mining che valuta che cosa lega la voce estesa del cliente al brand. Da qui si estrae un numero limitato di stimoli da sottoporre a test di neuromarketing: il laboratorio di Ainem verifica le parole attivanti o disattivanti e quelle che sono congrue col brand. Infine, gli insight ottenuti vengono calati nelle pratiche aziendali.

Il caso Confartigianato Varese

Il gruppo di lavoro di Ainem ha messo a punto una metodologia di ricerca innovativa per analizzare l’impatto emotivo delle parole. Il progetto è partito da una richiesta di Confartigianato di Varese, che si è rivolta ad Ainem per migliorare la propria comunicazione con gli associati.

«Confartigianato di Varese si era accorta che, nel tempo, questa comunicazione non riscuoteva più l’attenzione necessaria – racconta Garofalo -. Il gruppo di lavoro di Ainem ha condotto un’analisi degli strumenti usati, come la newsletter, e ha rilevato che il problema principale risiedeva nell’utilizzo di alcune parole, ovvero nel ricorso a un linguaggio troppo tecnico, di settore. Ainem ha individuato le 50 parole, nonché il font e altri elementi della comunicazione, che funzionavano di più attraverso le conoscenze e gli strumenti del neuromarketing, tra cui le reazioni della mente osservate con l’elettroencefalogramma».

«L’azienda deve avvicinarsi a quella che è l’agenda delle priorità delle persone – afferma Gallucci -. Deve esprimere le parole che hanno veramente significato per il cliente. Il neuromarketing è strategia. Il posizionamento del brand è innanzitutto nella mente delle persone e il perimetro di valori delle aziende viene accolto solo se è coerente con quello dei consumatori».

Il neuromarketing è etico?

Guardare nel cervello delle persone per capire se compreranno i nostri prodotti è lecito o ci stiamo spingendo in un’invasione inedita e inquietante della sfera personale?

«Mi sono chiesto se sia etico esaminare gli stati cerebrali e direi che non è né più né meno etico di qualsiasi altro tipo di studio di marketing – ha dichiarato Goleman -. Ha probabilmente sia molti difetti che benefici. Ma sono opportuni degli avvertimenti. Per esempio, per fare uno studio sul cervello, si mette una persona in una situazione artificiale e si vede come il suo cervello reagisce alla marca X o Y. Ma non può essere una replica reale di come agirà effettivamente. E il consumatore deve sapere quello che sta succedendo. In ogni marchio ci deve essere trasparenza al 100%. La prossima generazione di marketer avrà nuove regole cui obbedire per sopravvivere. Come consumatori non c’è molto che possiamo fare. La buona notizia, però, è che, se siamo consapevoli, subiamo meno le influenze».

Secondo Lindstrom con il neuromarketing «non stiamo mettendo l’etica da parte. La pubblicità ci sta già bombardando. Siamo esposti a 2 milioni di spot televisivi nel corso della nostra vita. Con il neuromarketing possiamo imparare un modo per rendere un annuncio più influente, e così ridurre il numero di annunci. Questo è il vero obiettivo».

Insomma: parlare di meno dicendo cose rilevanti, dando messaggi di qualità, liberando spazio per la mente dei consumatori. E, assicura l’esperto, «Funziona davvero».

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