“Com’è piccolo il mondo”, modo di dire ricorrente e sempre più attuale considerata la costante iperconnessione tra tutti noi. Essendo più “vicini”, non necessariamente in termini fisici ma in termini digitali sicuramente, le aziende e i brand nell’ultimo decennio si sono sfidati sul gigantismo delle proprie basi clienti, che per il marketing sportivo si traduce in fan base. Lo sports marketing (come gli anglosassoni chiamano il marketing sportivo) punta a promuovere ai consumatori di sport (chi pratica o segue uno sport) i prodotti sportivi. Un’altra definizione fa riferimento al marketing che utilizza lo sport come strumento di comunicazione.
Qual è oggi il ruolo e soprattutto l’efficacia dei social network per il marketing sportivo? Si sente spesso discutere di profili social con roboanti quantitativi di like per definire un brand più performante rispetto ai suoi competitor, ma siamo sicuri che questa possa essere considerata una metrica valida? È dimostrato che una più grande rete social si trasformi in benefici diretti per il brand? La risposta è no, come sostiene anche il guru Seth Godin nel suo ultimo libro (This is Marketing, 2019).
Marketing sportivo: ingaggiare i fan con social network non è semplice
Nella realtà di tutti i giorni, il like alla pagina Facebook di un determinato brand o di una determinata property sportiva potrebbe essere dettato da un comportamento di acquisto già in essere, dunque in una logica ex-post e non ex-ante. Un endorsement risulterebbe così meramente di status, un personale modo di comunicare la sensibilità nei confronti di tale prodotto, dove in un mondo senza social il comportamento d’acquisto potrebbe non cambiare. Se traslato sul mondo dello sport il ragionamento mantiene la sua validità, dove l’essere appassionato di uno sport o tifoso/simpatizzante di una determinata squadra sarà indipendente o solo parzialmente influenzato dall’ecosistema social, che viene invece sfruttato come mezzo per comunicare la vicinanza.
È davvero dunque il social lo strumento utile a misurare la fan-base? E soprattutto, è lo strumento utile per ingaggiare il consumatore o il fan? In un sistema che si sposta con sempre maggior vigore dall’advertising monodirezionale al content marketing rivolto a soddisfare i bisogni, sia emotivi che di acquisto, del cliente, le piattaforme di terzi -dove il brand non può controllare il customer journey dell’utente- rischiano di disperdere il potenziale degli investimenti comunicativi, senza ottenere un vero customer engagement.
Dalle industry alle community: la nuova relazione utente-brand
Il mondo consumer si sta inoltre “appiattendo”, vedendo la transizione da segmenti verticali per prodotto o industry a communities sempre più orizzontali e dai confini sempre più labili, dove nella relazione tra l’utente ed il brand Philip Kotler, il padre del marketing moderno, identifica cinque momenti (Marketing 4.0, 2018):
- Awareness: conoscenza del brand
- Appeal: attrazione verso il brand in relazione ai propri interessi personali, alle tipologie di comunicazione delle aziende ed all’influenza del network personale
- Ask: raccolta informazioni sul brand o sul prodotto che si intende acquistare tramite la rete e il proprio network
- Act: acquisto e utilizzo
- Advocacy: consiglio del brand o del prodotto ad altri utenti
Quest’ultima fase sta assumendo una crescente rilevanza in quanto i consumatori tendono a fidarsi sempre meno dei messaggi pubblicitari veicolati dai brand e cercano un parere trasparente tra le proprie conoscenze o sul web. Al fine di poter coinvolgere i clienti e i fan nel processo di advocacy per il brand, diventa fondamentale l’approfondita conoscenza degli utenti: abitudini, interessi, preferenze di acquisto, bisogni, desideri e molto altro. Sebbene una buona parte di dati sia tracciabile online, manca una copertura dei comportamenti sulle piazze del web, ossia i social network, in quanto i contenuti viaggiano su macro-piattaforme di terzi.
Le micro-community proprietarie: luoghi virtuali di dialogo dove ingaggiare gli utenti
Il marketing sportivo dei brand deve così ripensare i propri canali comunicativi creando nuove piattaforme di ingaggio degli utenti, in quanto i social network rischiano di tenere le aziende al di fuori della conoscenza delle reali necessità e desideri dei consumatori.
Da macro-community di terzi sarà così necessario il passaggio a micro-community proprietarie, ossia spazi digitali di brand, sport makers, aziende o persino interessi di tipo generale che vadano a privilegiare l’ingaggio degli utenti alla mera numerosità degli stessi. Luoghi virtuali dove sia possibile instaurare un dialogo con l’utente grazie a contenuti più personali, dove si ritrovino individui dagli interessi comuni e che possano scambiarsi opinioni, idee, spazi “dedicati” dove l’utente possa sentirsi tra suoi simili.
Nel mondo sportivo questa architettura mediale può assumere maggior validità, in quanto tifosi, appassionati e praticanti sono già membri appartenenti a community, ormai sempre più geograficamente disperse ma unite nelle medesime passioni: le discipline sportive e le squadre. Sono inoltre community molto peculiari, in quanto a differenza dei prodotti che sono tendenzialmente indirizzati a specifici target, gli sport sono per definizione aperti a tutti, pertanto questi luoghi digitali si configurerebbero come piattaforme per riunire tutti gli stakeholder afferenti a squadre e discipline: dai giocatori ai tifosi, dai praticanti agli organizzatori, dagli interessati agli sponsor.
I membri della community sarebbero così profilabili non solo in base allo storico o alle preferenze di acquisto, ma anche in base alla loro interattività nei confronti degli altri membri, alla loro preferenza verso un determinato trend, contenuto o ad un evento. Tutto risiede nella conoscenza del cliente.
Questo concetto è stato enfatizzato da Peter Moore, attuale CEO del Liverpool e precedentemente Head of Sport Division di Electronic Arts, in un’intervista all’Arabian Business: “Dalla mia esperienza nel mondo dei videogiochi ho imparato che puoi promuovere molti contenuti per determinati calciatori, ma se il videogiocatore è interessato solo a Mohamed Salah e tu non lo sai, ogni sforzo profuso è vano. (…). Voglio il tuo nome, genere, il tuo indirizzo mail. Se riesco anche ad ottenere la tua carta di credito, è un grande plus.”
Il mobile per un approccio data-driven al marketing sportivo
In un contesto moderno in cui la tecnologia assume crescente rilevanza all’interno dei processi di business così come nella quotidianità, saper raccogliere, organizzare, analizzare e sfruttare i dati diventa un tema centrale per qualsiasi organizzazione. Per i brand sportivi, che fanno dell’esperienza il proprio prodotto principale, diventa una tematica ancor più fondante al fine di poter personalizzare il customer journey del tifoso attraverso tutti i touchpoint e i canali, per una fruizione che si sposta con costanza verso i device mobili.
Il contesto digitale del nostro paese favorisce un processo di questo genere: secondo i dati di Comscore rilevati a ottobre 2018 (MMX Multi-Platform) sono circa 31,5 milioni gli italiani che si connettono alla rete da mobile e 12,6 milioni (32% del totale) quelli che utilizzano esclusivamente i device portatili, con l’Italia seconda solo alla Spagna tra le big d’Europa. Inoltre, oltre il 60% del tempo speso su internet è consumato all’interno di app.
I brand, sportivi e non, dovranno così ripensare i propri modelli di business ridisegnando le strategie in modalità digital first e mobile only.
Who's Who
Lorenzo Saccardi
Consultant, Practice Sport Innovation – P4I-Partners4Innovation