Connettere il business alla sua audience è molto più complesso di quanto si possa immaginare. Per diventare rilevanti sulla piattaforme social occorre individuare trend, correnti di opinione, influencer e non limitarsi a instaurare un dialogo bidirezionale con tutte queste istanze, bensì indirizzare i processi aziendali in funzione dello sviluppo delle relazioni. Non farlo significa dare i propri clienti e i prospect in pasto alla concorrenza. Naturalmente di rado è possibile disporre delle competenze e degli strumenti necessari per scandagliare e penetrare mercati e comunità che, pur configurandosi come internazionali e senza confini, tendono a diventare sempre più settoriali, con regole proprie e linguaggi specifici.
Le alternative sono due: la prima è rivolgersi a professionisti provenienti dal mondo delle ricerche di mercato, ai quali commissionare analisi che però, se condotte in maniera tradizionale, rischiano di essere già superate al momento della presentazione. La seconda alternativa è affidarsi agli strumenti che le startup sorte in questo nuovo ambito mettono a disposizione delle aziende attraverso il Cloud oppure, per chi predilige un approccio più tradizionale o cerca anche servizi a valore aggiunto (come il supporto editoriale o il fact checking), in forma consulenziale. «Con la differenza che noi, in termini di risorse, bruciamo un ventesimo di quel che in media occorre ai consulenti tradizionali», assicura Luca Morena, Fondatore insieme al fratello Alessio di iCoolhunt, intervenuto insieme ad altri startupper in un evento nell’ambito dell’iniziativa Startup Intelligence del Politecnico di Milano. L’evento è stata anche l’occasione per fare il punto sull’uso dei Social in Italia e per presentare le soluzioni innovative messe a punto da una selezione di startup e già utilizzate con successo da importanti brand.
Nata nel 2012 e cresciuta grazie a un milione di euro iniettati dal venture capital di Intesa Sanpaolo, iCoolhunt era partita come social media verticale, proponendo la raccolta di fotografie su temi specifici messi a fattor comune dalla loro capacità di fare tendenza: «Lo scopo era delegare a comunità di utenti la scoperta di nuovi trend, instaurando con loro una relazione basata sulla logica della gamification, incentivandoli a condividere materiali per il mondo e rendendo chiunque testimone dell’innovazione». Oggi la piattaforma è uno strumento che sfrutta gli analytics per fornire ai brand suggerimenti e ispirazioni su ciò che è ‘cool’, basandosi sui dati anche destrutturati presenti sui vari social network. «Scandagliando comunità omologhe su Instagram, Tumblr, Twitter, Pinterest e sullo stesso iCoolhunt, grazie al nostro algoritmo siamo in grado di individuare cosa c’è di nuovo e di potenzialmente interessante in diversi ambiti merceologici in qualsiasi parte del pianeta, registrando anche il sentiment che genera la tendenza e sfruttando applicazioni di brand recognition. Non è forecast, ma nowcast», precisa Morena. «C’è poi a disposizione dei clienti un team editoriale che approfondisce e verifica gli input, creando su richiesta anche contenuti di contorno rispetto ai trend emersi. Tra i nostri clienti ci sono già Prada, Fiat, L’Oreal, Carpisa, Allianz e Barilla, ma l’ambizione di iCoolhunt è diventare il Bloomberg delle tendenze».
Anche Datalytics, pur essendo un’azienda giovanissima (è stata fondata nel 2012), ha già un parterre di clienti di tutto rispetto. «Quindici sono internazionali e lavoriamo con colossi del calibro di Sky e Microsoft», spiega Noemi Giammusso, Cofondatrice e CFO della società romana specializzata in attività di analisi della Web reputation, meccanismi di social TV e strumenti di CRM, marketing e monitoraggio on line degli eventi». Datalytics offre una dashboard self service accessibile da qualsiasi device grazie alla quale è possibile svolgere analisi quantitative e qualitative in tempo reale sulle attività degli utenti su Twitter, Instagram e Facebook. In questo modo è possibile modulare le azioni di push e la creazione di campagne istantanee con contenuti speciali. «Sulla trasmissione della Notte degli Oscar 2015, andata in onda a febbraio 2015 su Cielo, sono stati registrati 32% tweet in più rispetto all’edizione del 2014, quando in lizza c’era ‘La grande bellezza’ di Paolo Sorrentino», dice Giammusso.
A proposito di campagne on line, Buzzoole (partita a Napoli nel 2013, oggi fattura circa 1,2 milioni di euro e punta all’espansione in UK e USA) lavora
sull’ottimizzazione del word of mouth e del buzz, grazie al coinvolgimento di influencer disposti a diventare brand ambassador in cambio di crediti convertibili, al raggiungimento di determinate soglie, in buoni spendibili su Amazon. «Lavoriamo con 160 clienti (tra cui Ceres, Red Bull, Wind e Bottega Verde, ndr), gestendo circa 300 campagne, anche per conto di intermediari», spiega Nicoletta Guardasole, Responsabile marketing di Buzzoole. «Il passaparola è diventato una leva fondamentale per le strategie di comunicazione on line in uno scenario in cui continuano ad aumentare le applicazioni di ad-block». Buzzoole sfrutta un algoritmo proprietario dotato di motore semantico che permette di analizzare e categorizzare le conversazioni e attribuire a ciascun utente un valore di influenza, valutando reach, relevance e resonance e distinguendo qualità e quantità dell’informazione. «In questo modo i clienti possono accedere a strumenti di Influencer marketing automation, che semplificano notevolmente le attività che servono per costruire e mantenere relazioni stabili con gli opinion leader dei social network a costi molto interessanti. Un esempio? Con un budget di 700 euro», chiosa Guardasole, «è possibile generare oltre 1.018 contenuti (tra attività virale ed attività a pagamento) e raggiungere 600 mila contatti. Naturalmente questo tipo di approccio incide in misura minore quando il contenuto è forte di per sé. Su comunicazioni meno virali il ricorso ad attività di influencer marketing garantisce un effetto moltiplicatore».
Andrea Gavazzoni, Fondatore di Pikablink, ha elaborato un sistema di premiazione degli “ambasciatori del brand” ancora più diretto (e, di conseguenza, più economico): «Il reward si innesta su un desiderio che c’è già e che ha bisogno solo di una scintilla per attivare la condivisione social, facendo del tutto a meno di utenti mercenari», garantisce Gavazzoni. Pikablink si appoggia essenzialmente su concerti e appuntamenti sportivi, rispetto ai quali la società seleziona veri influencer e appassionati dei brand sponsor facendoli sentire parte dell’evento e non di una campagna di marketing. «Ogni manifestazione crea inoltre automaticamente materiali di comunicazione, con i quali i testimonial vengono ricompensati: un pallone autografato dal campione della propria squadra, un’esperienza di gioco insieme ai propri beniamini, altre forme di merchandising. Tutto questo genera condivisioni sulle piattaforme social e customer advocacy e si traduce in un meccanismo funzionale alla proliferazione di network specifici all’interno dei quali le persone evitano la pubblicità e cercano ambienti più tranquilli per discutere con gli amici delle passioni in comune».
Nell’ottica di rendere funzionali questi approcci non solo rispetto al pubblico italiano, ma rivolgendosi a un’audience internazionale, serve la capacità di trasmettere i messaggi localizzandoli e adattandoli agli specifici contesti dei mercati di potenziale interesse. Il primo ostacolo naturalmente è quello linguistico. Ed è di questo che si occupa la londinese Reach7, fondata nel 2014 da Jamie Learmonth per offrire alle aziende servizi di Publish & Translate in 89 lingue. Come nei casi sopra citati, i clienti possono accedere on line a una dashboard che consente di personalizzare il servizio dal browser e in breve tempo. È sufficiente caricare i messaggi da postare sui vari social network, eventualmente allegando note o glossari specifici per i team di traduttori di Reach7, e nel giro di pochi istanti il post è pronto per essere divulgato ovunque lo si desideri, dal Giappone al Sudafrica. «Nel 97% dei casi il servizio è erogato entro 25 minuti», precisa Learmonth. «Non bisogna essere grandi aziende come Fiat, anche le Pmi o singoli individui hanno precise esigenze quando si tratta di essere ascoltati sui social media, e il nostro modello di business permette a chiunque di raggiungere un pubblico mondiale, che nel 70% dei casi non parla inglese». Oltre alla localizzazione, Reach7 offre anche servizi di content management – da promuovere all’occorrenza pure attraverso gli annunci a pagamento – e il coinvolgimento di utenti rilevanti nelle comunità di riferimento. «Il cliente non deve far altro che decidere chi è il suo interlocutore ideale, noi lo cerchiamo e accresciamo la sua presenza sui social», sintetizza Learmonth.
È davvero tutto così semplice e immediato? Non proprio, ma non per colpa delle startup. Specialmente in Italia, dove spesso le imprese non sono ancora culturalmente pronte per adottare queste logiche, il vero problema non è ingaggiare il pubblico sui social network, bensì sensibilizzare i responsabili Marketing & Communication delle aziende tricolore.