Il diritto all’oblio è uno strumento utile e necessario perché personaggi pubblici e aziende hanno, in questo modo, la facoltà di tutelarsi da danni d’immagine dovuti a risultati web negativi.
Si parla spesso diBrand Reputation Management, in senso preventivo e protettivo, ma cosa fare quando ormai una reputazione è già stata compromessa? Al netto della gestione delle crisi del momento, se abbiamo risultati fortemente negativi che si attestano ai primi posti nella SERP (Search Engine Results Page) di Google, su testate autorevoli o che invadono senza tregua i canali social, come rimuoverli?
Accade più spesso alle persone che non ai marchi: il Personal Branding diventa essenziale, inteso anche come monitoraggio costante e rilevazione del sentiment. Questo perché la lesione della reputazione personale di politici, amministratori delegati e VIP può portare gravi conseguenze. In una dimensione più “locale”, anche piccoli imprenditori e professionisti come medici, avvocati o commercialisti possono essere fortemente danneggiati da illazioni, implicazione in illeciti o errori reali ma commessi in buona fede.
Dunque, cosa fare se i risultati negativi sono già presenti, magari su testate forti che si attestano ai primissimi posti nei risultati di ricerca di Google? Vediamo cos’è il diritto all’oblio e come farne richiesta in maniera corretta.
Come ripulire la SERP
Esistono attività e risorse che si possono mettere in campo per cercare di ripulire le SERP in maniera proattiva e positiva. Il monitoraggio costante, tramite tool specifici e settaggio degli Alert di Google sul proprio nome brand, ad esempio, ma anche un’attenta moderazione dei commenti sulle pagine social personali o aziendali. Ovviamente, questo dovrà avvenire mettendo sempre al centro l’utente e fornendo risposte adeguate al contesto, sia come contenuti che come tono di voce.
La creazione e diffusione di contenuti positivi legati a un brand o a un personaggio pubblico, come articoli di un Blog ufficiale che forniscano informazione realmente interessanti e utili al pubblico, possono essere un altro ottimo modo per mostrare competenza e per farsi trovare dagli utenti attraverso risultati positivi.
Nei casi in cui ci sia una testata specifica, magari autorevole ma locale e avvicinabile, è pensabile anche agire attraverso azioni di PR vere e proprie. Come? Contattando la redazione e chiedendo delle rettifiche, se si hanno a disposizione informazioni aggiornate o più veritiere.
Cosa è la rimozione delle informazioni personali
Tutto utile, ma ci sono situazioni in cui i risultati negativi esistono già sulle pagine di ricerca di Google. Magari ai primissimi posti e magari da parte di fonti talmente autorevoli da essere difficilmente contattabili o impossibili da scalzare tramite contenuti propri e rettifiche autoprodotte.
Il diritto all’oblio messo a disposizione da Big G stesso a partire dal 2014, nasce proprio per fronteggiare questa situazione. Si tratta di un form denso di informazioni, identificato come “Modulo di richiesta per la rimozione delle informazioni personali ai sensi delle leggi sulla privacy europee” . Un documento da compilare con grande attenzione e dovizia di particolari, che il colosso di Mountain View potrà poi valutare, decidendo se la richiesta di rimozione è valida o meno.
Quando si può richiedere la rimozione ai sensi delle leggi sulla privacy
Innanzitutto, è bene spiegare che questo intervento può andare ad agire solo sui risultati negativi presenti nella SERP di Google: sono esclusi, quindi, i risultati degli altri motori di ricerca e delle piattaforme social.
E soprattutto, è essenziale sapere che non si tratta di una vera e propria “rimozione”: questo termine è utilizzato in modo improprio dato che, in realtà, quella che viene inoltrata è una richiesta di de-indicizzazione di specifiche URL. De-indicizzare significa, infatti, non che i risultati vengono del tutto cancellati, ma semplicemente che non saranno più mostrati nelle search engine result page per le specifiche query relative al brand o al nome della persona coinvolta.
Importante capire quando una richiesta è considerata legittima e valida: bisogna compilare il modulo in ogni sua parte, in modo corretto, ed eventualmente presentare regolare documentazione aggiuntiva che attesti la veridicità di quanto stiamo affermando. Fino a qualche anno fa, senza documenti legalmente validi da caricare come allegati alla domanda, la richiesta non veniva nemmeno presa in considerazione né approvata. Oggi, il campo upload della documentazione non è più presente nel modulo, ma Google si riserva di chiedere informazioni aggiuntive per completare la procedura.
Cosa dice la normativa in Italia: privacy e GDPR
Ci sono state lunghe contestazioni relative all’applicazione del diritto all’oblio a livello internazionale: Google, infatti, anche secondo la Corte di Giustizia non è tenuto a “valicare le frontiere” digitali. La rimozione, quindi, non si applica in maniera trasversale sui risultati di tutti i Paesi dell’UE.
In pratica, se una richiesta presentata a Google Italia attraverso il modulo per la rimozione di URL italiane dovesse venire accettata, quei risultati verranno de-indicizzati solo sulla versione IT del motore di ricerca. Volendo effettuare la rimozione su più Paesi sarà necessario inoltrare più richieste, una per ogni versione nazionale del motore.
Google può, inoltre, utilizzare le informazioni personali indicate nel modulo (tra cui l’indirizzo e-mail e i dati identificativi), e ulteriori dati forniti nella corrispondenza successiva con i propri operatori, allo scopo di evadere la richiesta. Non solo, Google può comunicare dettagli della richiesta alle autorità per la protezione dei dati, nel momento in cui siano necessari a fini di indagine o per contestazioni alle decisioni prese da Google stesso.
Come fare ad esercitare il diritto all’oblio su Google, modulo e passaggi
La procedura, in senso stretto, prevede la compilazione di un modulo online. Oltre ai dati personali e alla dichiarazione del fatto che la richiesta venga effettuata per sé, per la propria azienda o per terzi (necessario in ogni caso l’upload di un documento d’identità dell’interessato), bisogna poi elencare puntualmente ogni URL che si desidera far de-indicizzare. Ovviamente, la richiesta dovrà contenere l’esplicita motivazione del perché vogliamo che vengano de-indicizzate.
Questo vale nel caso in cui si utilizzi il modulo “generale” per presentare la richiesta di rimozione di risultati specifici per query che includono un nome o un marchio sulla Ricerca di Google, ma esistono anche procedure specifiche per altri prodotti Google, come Drive, Maps, Play, Immagini o YouTube.
La Riforma Cartabia
Resta però aperto un punto fondamentale, in un periodo storico in cui la libertà di parola è una tema caldissimo: come far convivere il diritto di cronaca dei giornalisti con il diritto all’oblio delle aziende? L’Italia arriva con qualche anno di ritardo rispetto alla normativa europea nel mettere dei paletti concreti a questa problematica. Il tutto, all’interno della Riforma Cartabia che, tra le altre tematiche legate al diritto dei minori e al penale, parla anche di regolamentazione della web reputation.
Cosa accade, infatti, quando il web si appropria all’istante di notizie trapelate dalle aule di tribunale, prima ancora dell’emissione di una sentenza? Titoli sensazionalistici e presunzione di innocenza spesso non vanno affatto d’accordo. Con buona pace dell’imputato che, sebbene dichiarato innocente e prosciolto a fine processo, si troverà comunque menzionato negativamente su testate online e quotidiani, locali o nazionali che siano.
Oggi, un particolare emendamento della riforma garantirebbe a ogni cittadino, infatti, di poter rimuovere automaticamente e in tempi più rapidi nomi e dettagli inesatti o datati da articoli in rete, tramite la deindicizzazione.
La non rimozione degli stessi sarebbe da considerarsi una vera violazione del principio di non colpevolezza, previsto dalla Costituzione italiana e dalla Corte Suprema Europea. Questo si lega a un altro principio regolamentato da Cassazione e Garante della Privacy, ossia il “diritto all’onore nella società mediatica”.
Diritto all’oblio e diritto alla memoria
Come visto, quindi, il diritto all’oblio, sancito principalmente dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) dell’Unione Europea, consente agli individui di richiedere la rimozione delle informazioni personali da Internet quando queste non sono più rilevanti o sono diventate obsolete. D’altro canto, il diritto alla memoria riguarda la preservazione delle informazioni storiche e collettive, garantendo che eventi significativi, esperienze collettive e fatti storici non vengano cancellati o dimenticati. Si tratta di un diritto fondamentale per la costruzione dell’identità culturale e sociale, nonché per l’apprendimento e la comprensione del passato.
Mentre, quindi, il diritto all’oblio tutela l’individuo proteggendo la sua privacy e dignità, il diritto alla memoria protegge la collettività assicurando che la storia e le esperienze condivise rimangano accessibili per le generazioni future. In questo caso, la sfida giuridica e sociale riguarda il riuscire a bilanciare i due diritti, garantendo che la protezione della privacy individuale non comprometta la conservazione della memoria storica e viceversa.
Diritto di cronaca e diritto all’oblio
Il diritto di cronaca, ovviamente, rimane essenziale, ma deve adattarsi a queste direttive. Magistrati e avvocati dovranno garantire il maggiore riserbo possibile e conferenze stampa e notizie relative a procedimenti in atto non potranno avere luogo se non a porte chiuse, o per casi di estremo rilievo mediatico a livello nazionale.
In un mondo sempre più digitale, infatti, è fondamentale comprendere come le regole reputazionali che valgono nella realtà “fisica” debbano necessariamente estendersi anche all’online. Illazioni, minacce e falsità esplicitate su canali Social e siti web non valgono “meno” del loro equivalente fisico, al contrario: sono sempre e comunque passibili di querela e denuncia da parte del soggetto leso.
Quali sono i Paesi che esercitano maggiormente il “diritto all’oblio”?
Di recente, Surfshark ha pubblicato uno studio che monitora l’andamento delle richieste di rimozione inoltrate in 32 Paesi europeei dal 2014 a oggi. Nel 2022 sono state inviate oltre 155mila richieste (contenenti 600 mila URL). Di queste, ben 147mila (ovvero il 96% del totale) riguardano informazioni esposte da Google, mentre solo una minima parte risulta presente sul motore di ricerca targato Microsoft.
In generale, rispetto al 2021, il numero complessivo di richieste è diminuito del 16%, segnando il primo calo dall’inizio della pandemia nel 2020. Questo declino è stato principalmente causato da una riduzione di quelle inviate a Google, che sono passate da 178mila a 147mila come detto. Un trend inverso segue invece Microsoft, che ha registrato un leggero aumento delle richieste, passando da 7.700 a 8.200.
L’Italia si colloca al quarto posto tra le nazioni che si distinguono per numerosità di richieste inoltrate (oltre 89mila). In testa si posiziona la Francia (circa 1/4 delle domande), seguita da Germania e Regno Unito.
Alla fine del 2022, Google aveva rimosso la percentuale più alta di URL contenenti informazioni sensibili e altre informazioni personali, rispettivamente il 97% e il 93%. Le informazioni criminali hanno avuto un tasso di rimozione del 61%.
Inoltre, dal 2014, i siti web di social network sono stati i domini più comunemente presenti nelle url eliminate da Google, Facebook in particolare. Di quest’ultimo, infatti, è stata richiesta la cancellazione di 129mila url, due quinti dei quali sono stati rimosse. X e YouTube si sono posizionati al secondo e terzo posto, rispettivamente con 72mila e 53mila richieste di url da annullare.