Il Marketing Funnel, con la brand awareness nella parte alta dell’imbuto e le performance a breve termine nell’ultimo tratto, è stato il modello più diffuso degli ultimi anni, per i marketer di ogni settore, dal B2C al B2B. Ma il Funnel è intrinsecamente imperfetto, in quanto trascura come gli utenti effettivamente vivono e acquistano un prodotto, un servizio, un marchio. Ma come possiamo colmare questo divario e trovare la “parte mancante” del marketing model per eccellenza?
Marketing Funnel, i limiti del modello
La domanda iniziale da porsi è: qual è lo scopo di un modello? Si tratta di un modo per descrivere, spiegare e prevedere fenomeni naturali, e questo vale a tutti i livelli e in tutti gli ambiti, dalla biologia alla matematica, dalla fisica fino – appunto – al marketing. I modelli ci piacciono perché creano una struttura, un ordine, negli apparenti caos e casualità del reale, incasellano comportamenti e riconoscono pattern, forniscono regole.
Il marketing funnel è, ovviamente, il modello più conosciuto al mondo per le attività di promozione delle imprese, e serve a raffigurare in maniera astratta il consumer journey… o almeno, come noi marketer vorremmo che fosse, lineare, perfettamente diviso in fasi e orientato a un obiettivo finale. Ma è davvero così preciso? Ovviamente no, la realtà e il comportamento d’acquisto non sono mai così lineari. Al contrario, il percorso del cliente diventa sempre più fluido, frammentato su canali e device, e la sua esigenza d’acquisto sempre più estemporanea.
Quali sono, quindi, le principali lacune di questo modello?
Monica Orsino, Senior Learning & Development Manager di Microsoft Italia, al Web Marketing Festival 2022, ha affermato che: «Microsoft oggi è in una posizione privilegiata per comprendere davvero il comportamento, le esigenze e le percezioni dei consumatori, e quindi le lacune del processo di marketing; questo perché abbiamo un punto di vista multiforme, essendo sia advertiser del nostro stesso marchio, sia publisher con Microsoft Advertising, sia consulenti per molte aziende».
Who's Who
Monica Orsino
Senior Learning & Development Manager di Microsoft Italia
Dove i CMO stanno investendo oggi
Partiamo dal comprendere come si muovono i marketer nella loro esigenza di maggiore comprensione del mercato e di raggiungimento di obiettivi ambiziosi in un momento storico di taglio dei budget di marketing.
Dalla “The CMO Survey”, giunta alla sua 28° edizione e presentata nel febbraio 2022, emergono evidenze abbastanza contrastanti:
- in primis ben il 39% dei marketer a livello global afferma di investire principalmente in attività orientate alla pura conversione, al ritorno immediato sull’investimento, ignorando quindi tutta la fase di upper e middle funnel. Come dire, investiamo solo in conversion, trascurando awareness e consideration;
- solo il 69% dei CMO, però, investe in canali digitali e search marketing; quindi, c’è un corposo 31% che continua a credere principalmente nei media tradizionali;
- il 66% degli intervistati sta sviluppando il mondo dell’analisi dati;
- il 38% prevede di utilizzare l’intelligenza artificiale per l’ottimizzazione delle proprie attività di marketing entro tre anni.
Saranno i dati e la tecnologia, quindi, a rendere il marketing funnel un modello più performante, ma anche la capacità di tornare a una relazione più “umana” con i consumatori, non orientata solo e soltanto alla conversione, ma immersiva, valoriale e autentica.
Cosa c’è in mezzo all’imbuto
Sempre secondo Orsino: «Ciò che rileviamo è che il marketing funnel è un modello difettoso, per la propria stessa forma ad imbuto, che presuppone una sorta di ineluttabilità, come se ci fosse una vera forza di gravità a spingere l’utente dalla cima al fondo. Ma sappiamo bene che non è così. Oggi siamo in grado di avere una visione mediamente piuttosto chiara della fase TOFU (Top of funnel), così come in basso o BOFU (Bottom of funnel). Ciò che resta oscuro è lo step centrale, il middle-of-the-funnel»”.
Infatti, sappiamo per certo che la parte più alta del marketing funnel corrisponde all’Awareness: si tratta di tutte quelle attività di branding e comunicazione che portano un bacino di utente più ampio possibile, potenziali consumatori in target, a iniziare a conoscere un nuovo prodotto/servizio.
Allo stesso modo, al fondo del funnel, la fase di conversion, sappiamo di avere un numero molto più ristretto di utenti, potenzialmente interessati e già in qualche modo coinvolti e accompagnati nel flusso, che viene spinto a una vera conversione da attività di performance marketing, di push vero e proprio.
Ma cosa c’è nel mezzo? Il termine stesso di “fase della consideration”, secondo Orsino è fuorviante: l’utente non è così lineare, non si approccia ai brand in questo modo, non continua a pensare, a tenere in considerazione un marchio che ha visto in fase di awareness, fino a che non matura l’idea di convertire, è tutto estremamente semplificato.
Il missing&messy middle – ossia, la fase di mezzo del funnel, considerata mancante e “confusionaria”, è quella da prendere in analisi se si vuole comprendere quanto la linearità del funnel sia semplicistica. La mente umana non decide per step progressivi, perfettamente consequenziali, ma ragiona per reti neurali, per associazioni, del tutto estemporanee: veniamo esposti a un brand, poi ci distraiamo, ce ne dimentichiamo, ce ne ricordiamo per caso quando emerge in noi l’esigenza di un prodotto/servizio simile, e così via.
Ecco perché questa fase di mezzo è essenziale: è qui che bisogna agire per cercare di mantenere viva l’attenzione e vi farsi ricordare quando arriverà il “micromomento” di impulso all’acquisto nella mente dell’utente.
Come è possibile, quindi, sfruttare meglio lo step mediano del funnel?
Secondo Microsoft le soluzioni più efficaci che si configurano sono tre e prevedono una commistione di branding, conversione e valorialità. Bisogna:
- Colmare il divario tra le esperienze di brand awareness e quelle di conversione;
- Mettere i valori del brand al centro dell’esperienza pubblicitaria;
- Usare i dati in modo più convincente per mappare le fasi intermedie.
Fondamentale, quindi, basarsi sui dati, ma anche essere trasparenti, etici, davvero sostenibili, creare fiducia e relazione reale con i propri consumatori, trovare valori che realmente rispecchiano il marchio in modo coerente, e non pensare solo alla conversione finale: con il giusto contesto di brand e con la corretta conoscenza, tramite i dati, degli utenti, la conversione arriverà quasi di conseguenza.
L’esempio dell’X-Box
L’esempio portato da Monica Orsino è la campagna di promozione della console X-Box, veicolata tramite una serie di video YouTube, ma molto lontana dal classico storytelling del mondo dei gamer. Si parla, infatti, di problematiche sociali, come la solitudine, cambiando del tutto prospettiva: il nipote gamer coinvolge il nonno, che vive da solo, lontano dalla famiglia, in sessioni live e multiplayer. In questo modo, l’esperienza di gioco viene mostrata in modo più ricco, per ciò che può diventare se ben utilizzata: non mero intrattenimento, ma mezzo per accorciare le distanze, per far comunicare le generazioni, per sopperire a mancanze sociali e a problemi contingenti, come l’isolamento generato dalla recente pandemia. Il tutto, pur mostrando comunque le caratteristiche del gioco e le sue potenzialità in senso proprio, ma senza metterlo al centro.
«La storia non è il prodotto, il prodotto non è la storia, e le persone vogliono sentirsi raccontare storie, non enunciare features tecniche. Non abbiamo raccolto dati di vendita specifici da questa campagna perché non era mirata alla conversione, quello che ci interessa in questo momento non è aumentare le vendite, anche se sicuramente ci sarà un effetto anche su di esse, ma quello che vogliamo è fare brand awareness, raccontare una storia» chiosa la portavoce di Microsoft.