Quando si parla di customer journey ci si riferisce a quel percorso, metaforicamente viaggio, che un cliente intraprende quando si avvicina a un prodotto e, il più delle volte, ancora non sa che deciderà di acquistarlo. Tutto ciò che ne consegue fa parte di un iter che è diventato via via più articolato e che, se ben gestito, può fare la differenza tra un’azienda di successo e una fallimentare.
Le relazioni cambiano
Dagli anni ’50 all’alba del World Wide Web, quando i beni da acquistare erano ancora fisici e il marketing esperienziale nemmeno esisteva come termine, il rapporto tra aziende e mercati era semplice: si pensava a un prodotto, nei casi più importanti si faceva qualche focus group per capire il livello di potenziale gradimento del target di riferimento, lo si metteva in produzione, si trovavano i canali di vendita, a quel punto si lanciava una campagna pubblicitaria e poi si verificavano le vendite. In estrema sintesi, il percorso era questo, semplice e lineare. Il rapporto tra prodotto e customer passava sempre attraverso un punto vendita, i casi in cui il cliente si trovava a dialogare direttamente con l’azienda produttrice erano rari. Anche i canali di comunicazione, nella loro monodirezionalità, impedivano a monte ogni forma di dialogo cliente-azienda, relegato a qualche occasionale contatto epistolare o telefonico che solo i più ostinati utilizzavano, magari per una lamentela.
A quell’epoca, la differenza tra il settore delle vendite al dettaglio, Business-to-Consumer, e quello delle vendite interaziendali, Business-to-Business, era netta e prevedeva modalità di approccio al mercato molto diverse, sia in termini di marketing, sia nelle modalità relazionali e di vendita vera e propria. Poi arrivò il Web, il suo utilizzo si diffuse a una velocità straordinaria e si scoprì che i mercati sono conversazioni (The Cluetrain Manifesto, 1999). A quel punto, la bidirezionalità delle comunicazioni on-line, la loro immediatezza e il progressivo sviluppo dei social media crearono un mix dirompente, capace di cambiare dalle fondamenta non solo il mondo del marketing ma, in generale, quello delle relazioni interpersonali.
Il prodotto deve far parlare di sé
Il successo di un prodotto non dipende più, solo, dalle sue qualità intrinseche e da una buona campagna pubblicitaria, deve far parlare bene di sé. In una parola, deve guadagnarsi una buona reputazione. L’azienda che lo produce deve imparare a dialogare direttamente con i possibili clienti così come a rispondere alle osservazioni di chi lo ha già acquistato.
In questo mondo iperconnesso, dove miliardi di persone utilizzano costantemente la Rete, scambiandosi informazioni su qualunque argomento, e le aziende fanno a gara per essere visibili, il primo passo nel customer journey è, sempre più frequentemente, on-line. Che sia il mi piace di un contatto su Facebook o un annuncio pubblicitario di Google, la scintilla dell’interesse si traduce velocemente in un clic, o in un tap, se usiamo lo smartphone.
A quel punto, si apre un sistema molto articolato di opportunità di contatto con il potenziale cliente che spazia dai social media ai punti vendita su strada. I cosiddetti touch point del marketing omnichannel, che ognuno di noi incontra quotidianamente per centinaia di prodotti, fanno tutti parte di viaggi che si intrecciano e che, più o meno coscientemente, ci portano a prendere decisioni di acquisto ma anche a influire, direttamente o indirettamente, sulla reputazione di ogni prodotto.
Il punto critico di questo ecosistema relazionale, per le aziende, sta nella difficoltà a intervenire efficacemente nelle conversazioni che avvengono spontaneamente in rete. Dando per acquisito il fatto che un sito istituzionale non è più sufficiente per presidiare efficacemente il Web, occorre analizzare, caso per caso, i singoli punti di contatto con il mercato, esistenti e potenziali. Dall’analisi si potrà delineare una strategia capace di integrare armonicamente le peculiarità dei diversi touch point, mantenendo quella coerenza semantica e formale che deve sempre caratterizzare uno specifico prodotto o marchio.
B2B e B2C, il ruolo della Rete
Esistono ancora aziende davvero B2B? Certamente sì ma Internet è diventato centrale anche nelle relazioni interaziendali. La reputazione non può più essere solamente basata sulla bontà del prodotto offerto, occorre raggiungere un livello di visibilità e di engagement che va al di là del proprio target principale.
Aziende come CAT, da sempre B2B, hanno sviluppato una fortissima presenza sui social media insieme a una strategia di marketing che ha portato a un risultato come la serie di cortometraggi Stack, dove alcuni operatori di macchine pesanti hanno a che fare con una pila di blocchi Jenga con cui effettuano operazioni spettacolari.
Anche nel settore dei servizi B2B la presenza sui social media è diventata fondamentale. Deloitte, per citare uno dei grandi nomi della consulenza, utilizza LinkedIn, Facebook, Instagram, Twitter e YouTube in modo intensivo, come si può verificare facilmente osservando le molte pagine dedicate a praticamente tutti i mercati mondiali.
Le industrie che, fino a non molto tempo fa, avevano il filtro della distribuzione che svolgeva il ruolo di intermediario con il cliente finale, oggi tendono ad attivare canali di dialogo diretto con il mercato. In molti casi assistiamo alla moltiplicazione dei canali di vendita: diretta (on-line e con negozi monomarca) e indiretta (attraverso le reti di distribuzione).
Colossi come Nike, Disney o Apple, hanno saputo integrare magistralmente i molteplici punti di contatto, fisici e digitali, con i loro clienti. Hanno realizzato quella customer experience multicanale di cui tutti parlano ma che pochissimi hanno davvero saputo mettere in pratica efficacemente.
Possiamo affermare che il customer journey ha trovato nel Web un punto di incontro tra B2B e B2C. Gli utenti della rete che interagiscono con i contenuti delle aziende, o di altri utenti che ne parlano, contribuiscono alla visibilità del brand e dei prodotti influendo sulla loro reputazione, indipendentemente dal fatto che siano clienti o meno. Anche se non comprerò mai un escavatore, potrei apprezzare un video dove si dimostrano le sue potenzialità, così come potrei partecipare a un concorso fotografico dove si chiede di immortalare un trattore agricolo al lavoro o contribuire a una raccolta fondi a scopo benefico promossa da un’azienda biotecnologica. Se poi, un giorno, dovessi cambiare mestiere e trovarmi a lavorare in un settore dove quei prodotti sono necessari, mi ricorderei di loro e potrei valutarne l’acquisto. Intanto, ho contribuito alla loro visibilità on-line e alla definizione del livello reputazionale che li caratterizza.
Il punto è che, nell’era digitale, facciamo costantemente dei journey che coinvolgono un’infinità di prodotti, indipendentemente dal fatto che siano rivolti a singole persone o ad aziende. Solo per una piccola percentuale di essi diventeremo dei customer, per tutti gli altri saremo solo viewer ma anche questo ruolo è essenziale nel grande gioco del mercato attuale. B2B o B2C che sia.
L’acquisto, la fase più delicata del customer journey
Il vero punto critico di ogni customer journey è la fase dell’acquisto. Lo sviluppo costante dell’e-commerce ha dimostrato che Internet ha saputo generare un sistema di vendita alternativo a tutti quelli tradizionali (dal porta a porta ai punti vendita su strada). Abbiamo imparato a fidarci di qualcuno che non conosciamo direttamente, al punto da essere disposti ad effettuare un esborso economico in cambio della promessa di ricevere il prodotto a casa. Sappiamo bene che la vendita per corrispondenza esiste dall’800 ma, in Italia, non ha mai preso veramente piede. L’e-commerce sì.
Anche per chi non compra direttamente on-line, l’influenza di Internet nelle decisioni di acquisto è determinante e sta portando i diversi punti di contatto con il cliente a una sorta di integrazione esperienziale. La coerenza delle diverse modalità di contatto con un prodotto è determinante per il suo successo: dal sito Web fino al servizio di assistenza dell’azienda, passando, ovviamente, per i punti vendita, le campagne pubblicitarie, ecc.
Il termine phygital, uno dei tanti neologismi di questi tempi hi-tech, indica proprio la coniugazione tra on-line e off-line verso la quale l’esperienza d’acquisto si muove sempre più con decisione. Tutti noi apprezziamo un customer journey frictionless, per usare un altro termine inglese che, nella sua traduzione italiana, perde quelle sfumature di significato legate al piacere di un’esperienza fluida, coerente. Se, per esempio, desidero avere maggiori informazioni su un prodotto ed ho a disposizione più canali di comunicazione attraverso i quali ottengo risposte in tempo reale, è evidente che la mia percezione di quel prodotto (e dell’azienda che lo produce) è positiva e sono stimolato all’acquisto. Il livello di fiducia aumenta e, anche qualora non arrivi subito all’acquisto, il mio cervello terrà ben presente quell’esperienza positiva e la utilizzerà in tutte le occasioni possibili. Viceversa, quanto riesce a maldisporci un addetto alle vendite incompetente o, semplicemente, poco gentile? Oppure un numero verde che ci lascia in compagnia di una musichetta, solitamente fastidiosa, per minuti e minuti? Non parliamo, poi, delle richieste effettuate via e-mail che non trovano risposta.
Se consideriamo il fatto che gli acquisti quotidiani davvero necessari sono pochissimi, sostanzialmente quelli per l’alimentazione, appare chiaro che, senza un customer journey ben congegnato, le probabilità di acquisire un cliente sono decisamente ridotte. Abbiamo davvero bisogno dell’ennesimo paio di scarpe o dell’ultimo modello di smartphone? Evidentemente no. Decidiamo un acquisto se l’oggetto in questione è capace di eccitare il nostro cervello rettiliano, dopodiché saremo bravissimi a trovare giustificazioni razionali per la spesa fatta: “certo che quel vestito è stato davvero un’occasione, non lo avevo ancora trovato con un colore così intonato con le scarpe blu!”.
Per arrivare a questo risultato, nulla deve essere lasciato al caso e ogni touchpoint con il potenziale cliente deve essere capace di generare un’impronta positiva.
C’è anche un dopo: il rapporto con il cliente dopo l’acquisto
Siamo stati bravi, abbiamo conquistato un cliente… ma quanto è facile perderlo e far sì che la sua (eventuale) insoddisfazione, per un qualunque motivo, generi un passaparola negativo? Quella reputazione che è alla base del successo di un’azienda rischia di essere minata in profondità.
In mercati saturi, e tendenzialmente recessivi, come quello italiano, le aziende non possono permettersi passi falsi nella gestione del rapporto con il cliente anche dopo l’acquisto. Anzi, è proprio quando il cliente va a casa e inizia a utilizzare il prodotto che deve essere seguito per far sì che non solo sia soddisfatto (e contribuisca attivamente alla generazione di un passaparola positivo), ma inizi anche ad elaborare il desiderio di tornare ad effettuare un altro acquisto proprio lì dove ha provato un’esperienza positiva (on-line od off-line, non importa dove).
Su questo tema, che coinvolge l’universo del CRM (Customer Relationship Management), molte realtà palesano grandi difficoltà. Questo è vero indipendentemente dalla dimensione dell’azienda. A volte è solo questione di attenzione verso il cliente, come nel caso di un commesso che non cura adeguatamente l’acquirente che gli pone qualche domanda, in altri casi si tratta di un’organizzazione carente nella sua struttura; pensiamo ai siti Web non aggiornati o ai numeri verdi che rendono impossibile parlare con un operatore umano. Comunque, il risultato è lo stesso: se il cliente trova un ostacolo nel suo customer journey, anche dopo l’acquisto, e non è soddisfatto, molto probabilmente, lo perdiamo.
Opportunità straordinarie, ma occorre cambiare pelle
La tecnologia ha davvero cambiato il nostro stile di vita in pochissimi decenni e ancor più lo cambierà nei prossimi, rendendo le battaglie sui mercati globali sempre più difficili. Le aziende hanno opportunità straordinarie per offrire customer journey davvero efficaci ma devono riuscire ad adeguare i processi aziendali al cambiamento della società e delle abitudini individuali in tempi rapidissimi. Uno dei più grandi ostacoli che si trova in molte aziende è proprio la resistenza al cambiamento, cosa che oggi non ci si può più permettere. La staticità è il primo nemico delle aziende. L’innovazione è, per sua natura, dinamica e non consente il mantenimento di sistemi rigidi incapaci di mutare perché ancorati a schemi precostituiti.
C’è una frase di Alvin Toffler che risale al secolo scorso e che sintetizza bene il senso di tutto ciò:
“Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere o scrivere, ma quelli che non sanno imparare, disimparare, e imparare di nuovo.”