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Cos’è il Brand Purpose e perché le aziende dovrebbero perseguire uno scopo più alto

Cosa significa davvero avere uno scopo a livello sociale, ambientale ed etico? Occorre ripensare strategie di business basate sulla mera competizione e agire insieme per il bene comune. Sicuramente, gli ultimi eventi drammatici per il Pianeta, dal Covid-19 alla recente crisi ucraina, hanno cambiato i bisogni dei consumatori e la percezione dei brand, che ora sono chiamati “a fare la propria parte”

Pubblicato il 14 Mar 2022

concept brand purpose

Il Brand Purpose è quell’insieme di valori, di ideali, attraverso i quali un’azienda mostra alla comunità di non essere solo venditrice di prodotti e ideatrice di campagne pubblicitarie commerciali. “Ogni azienda non deve solo fornire prestazioni finanziarie, ma anche mostrare come fornisce un contributo positivo alla società. Senza uno scopo, nessuna azienda, pubblica o privata, può raggiungere il suo pieno potenziale”, scriveva Larry Fink fondatore, presidente e CEO di BlackRock nella lettera ad accompagnamento del report annuale del 2017, e mai come oggi, con una serie di eventi che portano tutti a ridare il giusto peso alle cose, queste parole si stanno rivelando per tutta la loro forza.

Brand Purpose, cos’è e come definirlo per la propria azienda

Partiamo dalla definizione: il Brand Purpose è lo scopo ultimo di un’organizzazione all’interno di un contesto di comunità, di società, di bene dell’umanità intera, in un certo senso. Importante capire che altri termini, spesso utilizzati come sinonimo di “obiettivo”, non sono affatto assimilabili al concetto più alto di “scopo”. La mission aziendale o la value proposition, infatti, sono sì importanti indicatori di qual è la vocazione dell’azienda o il suo valore aggiunto per il consumatore, ma sempre in un’ottica – appunto – di consumo.

Allo stesso modo, i “goal” aziendali sono singoli obiettivi, piccoli traguardi raggiungibili attraverso attività operative, sempre legati alla way-to-market di prodotti e servizi, secondo le logiche del business. Sebbene sia intriso di etica e responsabilità sociale, il green marketing è pur sempre marketing, direbbe qualcuno con una punta di cinismo. E il rischio di essere tacciati di “washing”, cioè di etica di facciata, è sempre dietro l’angolo. Il Brand Purpose, al contrario, è qualcosa di più profondo, che sta portando multinazionali e organizzazioni di tutto il mondo, trasversalmente per settore, a mettersi profondamente in discussione fin dalle fondamenta.

Un esempio può essere quello di Lego, la celebre casa ideatrice dei mattoncini da costruzioni: anziché investire in semplice packaging riciclabile oppure organizzare raccolte fondi di beneficenza – tutte azioni pregevoli, ma sempre legate a una logica di awareness, di sostenibilità esteriore – l’azienda ha deciso di investire in R&D per rivoluzionare il prodotto stesso, dall’interno. Lego, infatti, dal 2021 ha già iniziato a studiare una produzione totalmente differente dei propri mattoncini, che saranno prodotti in bioplastica da bottiglie riciclate, e ha affermato che entro il 2030 i mattoncini classici non esisteranno più.

Come dire: cosa possiamo fare di concreto per cambiare noi stessi dall’interno, per avere un impatto reale sul mondo, che vada oltre i proclami e le confezioni dai toni del verde e del marrone?

Il caso Unilever: il purpose della maionese

Certo, mettere tutto in discussione e porre al centro uno scopo più alto, per il bene dell’umanità, può essere percepito come un po’ eccessivo, soprattutto per un certo tipo di prodotti. Eppure, moltissime multinazionali hanno deciso di impegnarsi per rinnovarsi e fare la propria parte, al punto da mettere in secondo piano le vendite.

Paradossale, ma è successo: celebre il caso di Unilever, colosso dei beni di consumo che di recente ha visto il proprio Chief Executive Alan Jope affermare che “Anche un brand di maionese come Hellmann’s deve avere uno scopo più alto”. Un impegno che può far sorridere ma che, in un mondo in cui l’obesità infantile sta diventando un problema e dove le filiere di controllo alimentare e di benessere animale sono al centro del dibattito etico ed ambientale, beh… risultano molto attuali. Non l’hanno pensata così, però, alcuni grossi investitori del gruppo insoddisfatti del fatturato del marchio di maionese, come Terry Smith, amministratore delegato del fondo Fundsmith, tra i maggiori azionisti di Unilever, che ha criticato pesantemente questa scelta di mettere al centro l’etica e l’impegno sociale, sostenendo che in un’azienda sana “i principi non possono sostituire i fondamentali del business”.

Un tema, quindi, sfaccettato e complesso per le persone di business stesse, dato che sviluppare il proprio purpose significa investire tempo e risorse in attività che, spesso, non vanno della stessa direzione dell’incremento delle vendite.

Brand Activism e Purpose, quando l’impegno sconfina nel washing

Le nuove generazioni sono sempre più critiche ed esigenti con le aziende, dai Millennial alla GenZ, tutti i consumatori sono concordi nell’addossare responsabilità e nel pretendere impegno e chiarezza dai Brand. Cosa devono fare, quindi, i grandi marchi? Si tratta di sapere individuare i problemi e interrogarsi su come fornire il proprio contributo, concreto e immediato, alla soluzione. Le corporation che agiscono guidate dal purpose mettono in atto rivoluzioni che coinvolgono tutti i settori e tutti i reparti dell’azienda. Si è obbligati a ripensare ogni fase, dalla concezione dei prodotti al packaging, dalle filiere alla logistica, dalla comunicazione alla vendita. Una sfida di medio e lungo termine, che sta già trovando la via nella sempre maggiore interconnesione e fluidità tra i reparti aziendali, in ottica RevOps e MOPS.

Pandemia e Brand Purpose, come le multinazionali hanno reagito all’emergenza

Indubbiamente, lo stravolgimento del mondo dovuto alla pandemia è stato uno degli acceleratori anche di questa nuova prospettiva del brand purpose. Fin dai primissimi momenti del lockdown 2020, infatti, le grandi organizzazioni a livello internazionale si sono impegnate a dare il proprio contributo attivo alla risoluzione dell’emergenza.

Servizi cloud gratuiti e contact tracing a disposizione dei governi: così i colossi del digitale hanno scelto di fare la propria parte durante la pandemia. Microsoft, oltre a rendere gratuito il servizio Azure cloud per le non profit, ha donato 35 milioni di dollari per contrastare il virus. Google e Apple hanno invece supportato i governi nel tracciare i contatti nella fase di allentamento delle misure di contenimento. Le Big tech non sono più percepite come antagoniste delle istituzioni, almeno da un certo punto di vista. Un bel passo avanti.

Connessione e informazione sono diventati indispensabili per sopravvivere ed evitare l’isolamento sociale, sin dai primi giorni della pandemia. Come hanno risposto i brand? Da una parte contribuendo ad abbattere le diseguaglianze di accesso alla rete, come nel caso di Comecast che ha offerto la connessione Wi-fi gratuitamente a tutti gli statunitensi. Dall’altra, cambiando la propria content strategy. Un case study esemplare è offerto dai 18 giocatori e giocatrici rispettivamente della NBA e della WNBA che hanno prodotto video di informazione sulla salute contenenti consigli per limitare il contagio. Il nuovo “brand purpose” della società è stato apprezzato dai fan: gli account social hanno infatti ottenuto 37 milioni di visualizzazioni. E questo è stato solo il primo step della campagna “NBA Together” che coinvolge giocatori, coach e medici per supportare i fan in un delicato periodo storico.

Colossi del lusso come LVMH (che comprende Louis Vuitton, Christian Dior, and Celine), Chanel o Burberry hanno scelto di produrre mascherine e prodotti igienizzanti. Non si è trattato certo di una riconversione del business, ma di un chiaro cambio di priorità: la salute è diventato il nuovo “purpose” dei brand, oltre il profitto. Un vero e proprio investimento che ha coinvolto la catena produttiva, in un momento di esplosione dell’e-commerce.

Trasporti, cibo e beni di prima necessità sono tra i principali mezzi di sussistenza offerti durante la pandemia dalle multinazionali, come Unilever, che ha donato 20 milioni di prodotti. Ma è la formazione, accanto alla charity, il nuovo “brand purpose” durante il Coronavirus. La multinazionale ha infatti lanciato una campagna educativa sull’importanza delle norme igieniche rivolta ai Paesi più poveri. Mentre Dyson ha pensato di creare 44 challange ingegneristiche per bambini e adolescenti durante il lockdown.

GlaxoSmithKline e Sanofi hanno unito le forze per sviluppare un vaccino contro il Covid-19. Una scelta del tutto inedita in un mercato fortemente competitivo, resa possibile da una mission condivisa: combattere la pandemia. Quest’ultimo è forse l’esempio più eloquente dell’importanza assunta dal brand purpose e della necessità delle aziende di ripensare le proprie strategie di marketing non in termini di differenziazione, ma di capacità di intercettare i bisogni diffusi con percorsi comuni “oltre il profitto”.

Ora, la vera sfida è riuscire a comportarsi in modo retto, sostenibile ed etico 365 giorni l’anno, anche in una situazione di normalità, fuori dalla “vetrina” temporanea della situazione straordinaria.

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