La funzione marketing deve trasformarsi profondamente e diventare un vero driver di profitto e crescita. Perché ciò accada servono nuove tecniche di indagine, quelle del biomarketing, che vanno a integrare quelle puramente neurologiche del neuromarketing, e un nuovo “ritmo”, che non è quello tradizionale delle campagne. È quanto sostiene Giuliano Noci, ordinario di Strategia e Marketing al Politecnico di Milano, intervistato in questo video in occasione della pubblicazione del nuovo libro “Biomarketing“, edito da Egea.
Ecco la trascrizione dell’intervista. Qui il link per rivedere il Webcast con Giuliano Noci organizzato da Digital360 il 6 aprile
Professor Noci, cos’è il biomarketing?
Biomarketing è una nuova piattaforma per la costruzione di relazioni virtuose con il mercato che parte da un assunto di fondo: la centralità dell’uomo. In un contesto ipertecnologico e iperconnesso come quello attuale si tende ad associare alle dinamiche di comportamento degli individui decisioni razionali, assunti pienamente basati su processi cognitivi. In realtà non è così: oltre il 90% delle decisioni d’acquisto di oggi si basano ancora su emozioni. Le emozioni inducono ad azioni. In questa prospettiva, il biomarketing è la capacità di utilizzare la tecnologia per costruire al meglio una relazione marca-consumatore.
Who's Who
GIuliano Noci
Professore ordinario di Marketing al Politecnico di Milano
In pratica, come funziona il biomarketing?
Il biomarketing nella pratica si traduce in due traiettorie di cambiamento principali. Da una parte nuovi strumenti di indagine. Nel marketing siamo tutti abituati ad utilizzare ricerche di mercato che si basano sul dichiarato; queste sono un po’ meno utili rispetto al passato per interpretare le ragioni per cui un individuo reagisce a un certo stimolo. Utilizziamo quindi nel biomarketing un approccio nuovo: tecniche biometriche che rilevano attività celebrali e parametri corporei per rilevare le emozioni che un individuo prova a fronte di uno stimolo cui è sottoposto. La seconda traiettoria guarda invece a un nuovo ritmo, che non è più quello della campagna di marketing, ma è la capacità di costruire nel tempo uno storydoing, cioè una narrativa di marca, un insieme di interazioni che da un lato impattino positivamente nella mente del consumatore, creino una consizione di risonanza emotiva e nello stesso tempo agiscano sui cosiddetti momenti dell’amore, i love times. Il processo d’acquisto in questa chiave non è più piatto ma ha dei momenti, degli istanti, dei touchpoint del tutto particolari, che occorre individuare per sviluppare azioni consistenti e coerenti, con l’obiettivo di indurre il consumatore all’acquisto.
Che ruolo ha l’analisi dei Big Data in questo contesto?
Ai Big Data attribuiamo una dimensione salvifica. Sono un insieme di algoritmi che ci permettono di avere la risposta a problemi che io reputo complessi. In realtà, siamo un po’ degli integralisti dell’intelligenza artificiale dei Big Data se adottiamo questa prospettiva. Un esempio: se tutte le aziende adottassero Big Data cioè algoritmi che si basano su logiche correlative ed associative in qualche misura tutti arriverebbero alle stesse conclusioni, quindi arriveremmo al paradosso dell’isomorfismo comportamentale, in cui tutti fanno la stessa cosa, che è la negazione stessa del gioco competitivo. Ancora, in questa prospettiva, io sostengo che l’uomo, in questo caso come manager, possa fare la differenza, che non vuol dire negare l’utilità dei Big Data. Essi sono uno strumento supporto di un sistema di connessioni creative e innovative che solo la mente di un uomo è in grado di generare.
Cosa non funziona oggi nel marketing tradizionale?
Nel nuovo contesto del marketing tradizionale non funzionano un certo numero di cose. La prima è il mito del consumatore razionale. Noi purtroppo ci appiattiamo su una visione di prezzo e non realizziamo profitti come imprese perché conosciamo poco l’individuo ed è la leva più semplice per cercare di conquistare fatturato. Siamo ancora ancorati ad una prospettiva di proposizione del valore legata al “che cosa”, ovvero la qualità e i valori intrinseci del nostro prodotto. In verità, quello che sostengo nel mio libro è che la vera proposizione di un’impresa sia il combinato disposto del che “cosa” più il “come”. “Come” vuol dire la capacità di costruire un sistema di interazioni virtuose che è in grado di creare fiducia, empatia tra quella che è la marca e l’individuo. Questa dimensione di processo sarà sempre di più quella che farà la differenza, mettendo in secondo piano il prodotto. E in questo senso Amazon docet.
Come opera il laboratorio Pheel del Politecnico di Milano?
Il Politecnico di Milano ha creato un laboratorio di biomarketing, che è frutto di competenze interdisciplinari: bioingegneria, design, information Technology e business vanno a braccetto per cercare di aiutare le imprese a interpretare meglio reazioni di individui esposti a determinati stimoli.
Stiamo lavorando con molteplici imprese. Un esempio è quello di una Media Company che ha la necessità di veicolare e analizzare il rapporto messaggio pubblicitario-contenuto. In altre parole, capire come la qualità del programma può influenzare l’efficacia del messaggio pubblicitario.
Un altro caso molto frequente è la valutazione dell’efficacia delle interfacce web, tipicamente in grandi progetti di e-commerce.
Inoltre, testiamo layout di punti vendita per capire come l’esperienza del consumatore cambia a fronte di layout e forma. Infine, stiamo approcciando un tema estremamente interessante: l’impatto dell’auto elettrica sulle emozioni di un individuo, che guida un’auto ad alte prestazioni senza più sentire il rombo del motore.
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