Intervista

Mediamond, l’advertising è sempre più orientato ai dati

A un anno dal suo insediamento alla guida del nuovo team innovation, che si occupa in particolare di Programmatic e Data Management, Paola Colombo racconta la sua vision sul mercato italiano dell’Internet Adv: «Trend in forte crescita, ma c’è ancora scetticismo»

Pubblicato il 01 Apr 2016

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Da circa un anno, Paola Colombo è la Responsabile Tecnologia e Business Development di Mediamond, la concessionaria per la vendita della pubblicità sulle properties digitali e stampa di Mediaset e Mondadori. Ingegnere, con un passato da Analista Finanziario ed esperienza nel Performance Marketing, la manager è stata chiamata in azienda per strutturare un’offerta Programmatic e una piattaforma di Data Management che consenta di adottare strategie di business sempre più data-driven, basate cioè sull’analisi organica dei dati come elemento di valore per il business.

Programmatic, Video e Mobile sono le parole d’ordine oggi dell’Internet Adv. Qual è il vostro punto di vista sul mercato italiano?

Se fino a poco tempo fa erano parole di moda, ora il trend è diventato reale. Il programmatic, cioè l’automazione dell’acquisto dell’adverising, così come l’applicazione di logiche data-driven nella pianificazione delle campagne, si stanno dimostrando effettivamente leve importanti di marketing e in grado di snellire i processi aziendali. E iniziano a rappresentare una parte importante del fatturato anche per editori premium e con una storia non puramente tecnologica, come noi.

Il video, in particolare, è una forma di comunicazione particolarmente efficace, specialmente in Italia, che è un Paese molto orientato alla televisione, e oggi si sta trasferendo sui mezzi digitali. Al contempo, gli utenti sono sempre più Mobile. Gli investimenti però non crescono in modo proporzionale: c’è un ritardo di consapevolezza e una difficoltà nel capire come interpretare questo mezzo. Il target è particolare, mi riferisco in particolare ai Millennials: sono più difficili da ingaggiare, più scettici riguardo all’advertising tradizionale. Diventa interessante il native advertising, in cui è il contenuto a fornire un valore informativo al messaggio pubblicitario.

Ma cosa intende esattamente con native advertising?

Va detto che oggi il native advertising è ancora poco definito. Gli editori tradizionali lo stanno approcciando con la loro forza editoriale, mentre chi non ha questa opportunità sfrutta le leve tecnologiche. Per un editore come Mondadori può essere un contenuto in cui si racconta una storia o un prodotto.

Per Yahoo o Google, invece, il native è un formato molto diverso: può essere ad esempio un’immagine in linea con il contesto della pagina in cui viene inserita. Anche In-feed, il formato pubblicitario di Facebook, è considerato native.

Gli investitori riconoscono il valore di un pezzo editoriale, ma paradossalmente c’è poi una complessità nella produzione dei contenuti, che richiede uno sforzo di collaborazione con l’editore che a volte può essere una barriera: è più semplice realizzare una campagna con un’immagine e un breve testo, che viene definita native giusto per cavalcare un trend del mercato, piuttosto che sviluppare un progetto più ampio e articolato. Ovviamente l’efficacia delle due cose e il percepito sono ben diversi.

Mediamond ha dichiarato un anno fa il suo impegno sull’analisi dei dati. Come vi state muovendo?

Il digitale è un mezzo estremamente misurabile, ma è ormai riconosciuto che il customer journey attraversa tutti i mezzi, non si ragiona più in silos. Oggi siamo impegnati a portare alcune di queste pratiche sui mezzi più tradizionali, come la televisione.

Lo sforzo è capire come ogni mezzo partecipa, individuarne l’efficacia e il mix migliore. Per alcuni settori è più semplice perché si hanno delle risposte immediate, per altri, per esempio il largo consumo, è molto più difficile mettere insieme tutti i dati.

Inoltre, l’utente è sempre più abituato a costruire da solo un’esperienza di contenuto, a scegliere cosa vedere, quello che è per lui interessante. Per questo, sono in corso studi che puntano a costruire un’esperienza di advertising personalizzata, a partire dai dati che raccogliamo. La comunicazione diventa così più efficace per il brand e meno invasiva per l’utente.

Si diffonde l’uso delle metriche per l’Internet Adv, come la viewability. C’è la percezione del valore dalla parte di chi investe?

Credo che quello che quello che manchi davvero sia la misurazione dell’efficacia di ogni mezzo, come dicevo, un’evidenza forte di come ogni mezzo può partecipare alla decisione d’acquisto. E questo crea ancora una sorta di scetticismo che frena il cambiamento. Tutti cercano delle metriche intermedie per capire se il digitale è efficace, giustamente si cercano degli standard, e gli investitori stanno cavalcando questo trend per avere più trasparenza. È sacrosanto capire se e quanto la pubblicità viene vista, ma il mio timore è che fermandoci a misurare queste cose si perda poi l’obiettivo finale, cioè capire se la strategia porta dei risultati concreti.

In un settore così innovativo, oggi molte aziende fanno fatica a trovare le giuste competenze. Come è composto il suo team?

Il mio team non è composto da persone con una formazione tecnica, a parte il Data Scientist. È molto difficile che giovani con una laurea in informatica si candidino per una posizione di marketing: sono due mondi che fanno ancora fatica a parlarsi. Abbiamo formato internamente dei giovani per insegnare l’utilizzo della piattaforma programmatic: l’apprendimento è ragionevolmente veloce, 3-6 mesi. Ma per il data scientist non è possibile, servono competenze di statistica e di informatica, e l’abbiamo ricercato all’esterno. Non è stato facile: cavalcando il trend dei big data, che è una grossa opportunità, tutte le aziende si stanno oggi muovendo.

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