Pianificazione strategica

McKinsey promuove il “Long Termism”: «Basta con l’assillo delle trimestrali»

Un’analisi su 615 grandi imprese USA quotate evidenzia che chi privilegia obiettivi a lunga scadenza negli ultimi 15 anni ha visto crescere fatturati e utili molto più dei concorrenti. «Chi si fissa sul breve termine investe meno e mina il suo futuro». Per esempio lasciando indietro la digitalizzazione, «che sarà il principale differenziatore tra imprese vincenti e perdenti»

Pubblicato il 10 Mag 2017

McKinsey Long termism

Le strategie di breve termine (“Short Termism”), con orizzonte limitato alla fine del trimestre o dell’anno, stanno diventando la norma tra le aziende quotate. Invece di definire ed eseguire strategie mirate a creare valore nel lungo termine, moltissime imprese dedicano grandi risorse al raggiungimento degli obiettivi trimestrali, minando il loro stesso futuro.

Questa tesi è sempre più diffusa negli ambienti finanziari e di business, soprattutto anglosassoni (ma se ne parla anche in Italia). E ha sostenitori eccellenti, come Laurence Fink, CEO di BlackRock, il più grande fondo di asset management del mondo (5100 miliardi di dollari gestiti), che nel 2016, in una lettera a tutti i CEO delle aziende S&P 500, ha scritto «molte delle vostre compagnie sono solite puntare su grandi dividendi, profitti trimestrali e buy-back di azioni per compiacere investitori come me. Ma è ora di cambiare: investite di più nella crescita, e spiegate agli investitori la vostra strategia di creazione di valore nel lungo termine».

BlackRock è tra i fondatori – insieme a nomi come McKinsey, Dow Chemical e Tata – di “Focusing Capital on the Long Term” (FCLT Global), organizzazione non-profit che supporta appunto le strategie di business e investimento di lungo termine, e oggi conta altri iscritti “eccellenti” come AT&T, BP, Unilever, e molti fondi d’investimento e fondi pensione di tutto il mondo.

La nascita di FCLT Global, e altre iniziative del genere – tra cui la creazione di un indice di Borsa “S&P Long-Term Value Creation Global Index” – ha ravvivato un dibattito tra economisti ed esperti di finanza che è in corso da anni. Da una parte c’è chi dice appunto che lo Short Termism mina la capacità delle imprese di investire e crescere, e questo impatta su tutta l’economia, rallentando l’innovazione, la crescita del PIL e la creazione di posti di lavoro. Altri sono molto scettici, e citano la crescita dell’economia negli ultimi decenni come prova che il fenomeno Short Termism riguarda singole imprese e non ha effetti generali.

L’87% sotto pressione per portare risultati tangibili entro 2 anni

In questo quadro McKinsey – la più prestigiosa società mondiale di consulenza strategica – si è schierata decisamente tra i sostenitori del “long termism”, scrivendo una serie di articoli su testate come Harvard Business Review, Financial Times, Wall Street Journal, e conducendo indagini e analisi per sostenere con fatti e numeri le sue tesi.

Nel 2016 per esempio, con un’indagine su oltre 1000 executive C-Level e membri di consigli d’amministrazione di imprese di tutto il mondo, McKinsey ha accertato che l’87% subisce forti pressioni per dimostrare risultati finanziari evidenti della propria strategia entro 2 anni, il 65% pensa che queste pressioni siano aumentate negli ultimi 5 anni, e il 55% che la propria azienda eviterebbe un investimento con sicura creazione di valore, se questa rinuncia permettesse di centrare i target trimestrali.

Il classico caso sono gli investimenti in tecnologie digitali – per esempio un sistema CRM, di eCommerce, o di Logistic Management – che tipicamente mostrano i loro benefici solo in qualche anno, e spesso in modo non quantificabile (intangibles). In un’impresa di orientamento Short Term questi progetti sono spesso a rischio, anche perché le tecnologie digitali soffrono di un ulteriore svantaggio: nella teoria strategica non sono quasi mai associate alla creazione di valore, perché l’IT è sempre stato considerato un centro di costo.

Eppure, sottolinea McKinsey, in tutti i settori una strategia di digitalizzazione coraggiosa e fortemente integrata su tutte le sue principali componenti (prodotti e distribuzione, processi di business, supply chain, ecosistema), sarà nei prossimi anni il principale differenziatore tra imprese vincenti e perdenti. E i più grandi ritorni da questi investimenti saranno per chi partecipa fin dall’inizio alla “digital disruption” del suo settore.

5 milioni di posti di lavoro in più se tutte fossero Long Term

Insomma l’atteggiamento giusto è il Long Termism dice McKinsey, ma per la sua complessa natura di confluenza di diversi fattori, i suoi effetti positivi finora erano stati evidenziati solo a livello teorico.

Finora, perché poche settimane fa sulla Harvard Business Review un articolo (“Finally, Proof That Managing for the Long Term Pays Off”), firmato da Dominic Barton, Global Managing Partner di McKinsey, James Mayinka, Director McKinsey Global Institute (MGI), e Sarah Williamson, CEO di FCLT Global, ha spiegato i risultati di un’analisi empirica effettuata da MGI su 615 grandi e medie imprese USA quotate in Borsa.

Analisi che dimostra che le imprese con strategie a lungo termine ottengono risultati notevolmente superiori ai loro concorrenti dello stesso settore su praticamente tutti gli indici finanziari più importanti. I ricercatori hanno studiato i dati finanziari e operativi delle 615 imprese del campione – che rappresentano oltre il 60% della capitalizzazione totale delle Borse USA – relativi ai bilanci dal 2001 al 2015.

«Per tracciare sistematicamente gli impatti del Long Termism – scrivono i tre autori – abbiamo definito il Corporate Horizon Index, basato su 5 indicatori finanziari: investimenti, qualità dei profitti, margin growth, earnings growth, quarterly targeting (le definizioni sono specificate nello schema in fondo all’articolo, ndr)».

Dall’elaborazione dei dati è emerso un gruppo di 164 aziende (il 27% del campione) che chiaramente sono “Long Term” dal 2001, o lo sono diventate entro pochi anni, e che nel periodo esaminato hanno incrementato il fatturato, l’utile netto, la capitalizzazione di borsa rispettivamente del 47%, del 36% e del 56% in più rispetto alla media dei concorrenti nei rispettivi settori. Inoltre nel periodo hanno speso il 50% in più in ricerca e sviluppo, e negli anni della crisi economica (2008 e 2009) hanno subito oscillazioni in borsa più forti dei concorrenti, ma dopo hanno recuperato più velocemente.

Non solo. Le imprese Long Term nel periodo hanno creato in media 12mila posti di lavoro in più della media dei concorrenti: se tutte le imprese si fossero comportate come loro, sostengono i ricercatori del MGI, gli USA avrebbero avuto 5 milioni di posti di lavoro in più dal 2001 al 2014, e un PIL di 1000 miliardi di dollari più alto.

I critici: lo Short Termism non è un problema generale

Questa analisi, scrivono gli autori, è solo un primo passo, anche perché il campione comprende solo imprese USA quotate, mentre gli effetti dello Short Termism vanno approfonditi anche in altre regioni del mondo, nelle medie imprese, e settore per settore. «Però ha già ottenuto due grandi risultati. Oltre a quantificare gli enormi ritorni del Long Termism, ha dimostrato anche che questo orientamento si può acquisire: il 14% del campione non era LT nel 2001, e lo è diventato durante il periodo esaminato».

L’articolo McKinsey-FCLT Global sulla Harvard Business Review naturalmente ha suscitato molte reazioni. Ne citiamo solo due a titolo d’esempio. Larry Summers, già US Treasury Secretary nell’amministrazione Clinton, sulla stessa HBR si dice scettico sulle conclusioni dell’analisi (“se davvero lo Short Termism danneggiasse la propensione agli investimenti, provocherebbe una stagnazione secolare”) ma la definisce molto importante: «Occorre un approfondito dibattito, con altre analisi empiriche che rispondano a questa».

L’Economist invece, con l’articolo “Corporate short-termism is a frustratingly slippery idea”, nella sua rubrica “Schumpeter”, sostiene che solo in singole aziende lo Short Termism fa davvero danni. Quindi è una distrazione dalla vera criticità: gli eccessivi profitti degli “incumbent” nei vari settori, settori che diventerebbero molto più dinamici e innovativi se la politica industriale indebolisse le posizioni dei leader abbassando le barriere all’entrata. Il dibattito, insomma, è più che mai aperto.

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