I Chief Financial Officer (CFO) lo sanno bene: crisi o non crisi, dal board o dal top management la richiesta di tagliare costi arriva molto spesso. Il paradosso, però, è che spesso le politiche di spending review fatte superficialmente pesano sul bilancio più di quanto facciano risparmiare.
Secondo le analisi della società di consulenza AT Kearney, in genere le operazioni di ristrutturazione generano perdite pari al 125% dei risparmi ottenuti. «Nell’anno fiscale 2016 le aziende Fortune 500 hanno speso in tutto 44 miliardi di dollari in piani di compressione dei costi», confermano Daniel Mahler e Greg Portell, rispettivamente Head of Americas del gruppo e Lead Partner della divisione Consumer and Retail, in un articolo sulla testata specializzata CFO. «Complessivamente, le compagnie Fortune 500 hanno registrato una crescita zero del fatturato, e 146 imprese hanno mancato gli obiettivi di fatturato».
Facendo un esempio specifico, i due manager rivelano che un’azienda del largo consumo ha investito 125 milioni di dollari in un programma di riduzione dei costi che ha portato a risparmi pari a soli 20 milioni.
Un errore tipico: lo “scaricabarile” dei costi
Un caso isolato? Non proprio. Spesso i costi dei programmi di “cost reduction” vengono sottovalutati. L’articolo fa l’esempio delle spese a cui una multinazionale va incontro per chiudere uno stabilimento in Europa. Tra accordi sindacali, prepensionamenti e altri costi sociali, gran parte dei tagli (che comunque non sortiscono effetti immediati) è compensato da esborsi da sostenere nel breve termine.
Un ulteriore motivo per cui spesso i programmi di ristrutturazione non raggiungono i risultati sperati è che le organizzazioni tendono a spostare i costi dell’area interessata dai tagli verso uffici non coinvolti, facendo sì che l’operazione risulti del tutto inefficace. La questione è particolarmente insidiosa per le organizzazioni a matrice, all’interno delle quali le linee funzionali e le responsabilità manageriali sono talvolta sovrapposte. Chi è imputabile per i costi da abbattere: la Region, il Brand o il capo delle operazioni?
Altro errore tipico in queste situazioni è la sottovalutazione dei costi opportunità. «Vi siete mai chiesti per esempio quanto tempo gli altri executive o anche solo i vostri collaboratori dovranno devolvere all’attuazione del programma? E qual è il costo del dirottamento di talenti che potrebbero essere più utili se impegnati su altri obiettivi?», notano Mahler e Portell. Senza contare lo stress e l’impatto emotivo che i tagli possono avere sull’intera organizzazione, e il conseguente calo di produttività. Un altro tipico e frequentissimo esempio di costo opportunità è la decisione di rinunciare a un investimento in tecnologie digitali già previsto appunto per tagliare costi. È vero, si chiamano tagli lineari, ma all’atto pratico ci sono molti altri fattori che li rendono assai più complessi di una semplice sottrazione da applicare su un file Excel.
Come evitare quindi di intraprendere superficialmente una politica di tagli di costi che produce più danni che benefici? I due manager di AT Kearney propongono quattro suggerimenti ai CFO.
Costo opportunità, il caso degli investimenti digitali
Il primo è saper distinguere tra iniziative che pur eliminando risorse e costi aprono opportunità, e iniziative che semplicemente drenano risorse fiaccando l’organizzazione e generando pochi risparmi.
Indispensabile poi l’analisi completa dei costi-benefici di ogni iniziativa, includendo anche – e soprattutto – fattori come i costi opportunità di impiegare il tempo di risorse aziendali su progetti di riduzione costi piuttosto che su altri obiettivi, e l’impatto dei tagli sull’atmosfera aziendale, e quindi sulla produttività. Tornando all’esempio della rinuncia o no all’adozione di una soluzione digitale, per esempio, è cruciale evitare la “trappola del caso-base”, e porsi la domanda: cosa succederà a tre anni se non introduco, il sistema CRM o di Logistic Management chè è stato pianificato? È possibile anche che le performance peggiorino fortemente. Un grave errore infatti è dare per scontato che tutto continuerà come ora: con la digitalizzazione non succede quasi mai, perché i concorrenti e le regole della competizione cambiano molto rapidamente.
Evitare compromessi ed esitazioni: poche iniziative, ma con estrema decisione
Il terzo riguarda la condivisione delle responsabilità: per evitare semplicemente di “spostare costi” da una divisione o reparto all’altra è meglio fissare un obiettivo comune, aziendale, su cui siano responsabilizzati tutti i manager. In questo modo, nel momento in cui non si riesce a eliminare l’inefficienza in un determinato settore dell’impresa, si evita di puntare l’attenzione su altri e allo stesso tempo si favorisce un approccio problem-solving che travalica le barriere funzionali.
Infine, meglio evitare azioni limitate, frammentate ed esitanti. Lo stillicidio di programmi di tagli di costi piccoli, pieni di compromessi rispetto agli obiettivi iniziali, e continuamente ripetuti è dannosissimo sia all’interno dell’azienda sia sull’immagine all’esterno. Se bisogna intervenire, meglio farlo con estrema decisione. Poche volte, ma agendo a fondo. «Questo è anche un preciso segnale per il mercato», concludono Mahler e Portell. «Invece di trasmettere l’idea di un lento declino, l’azienda comunica consapevolezza, capacità di prendere in mano il proprio futuro».