Le manifestazioni di protesta del movimento Occupy Wall Street sorprendono solo per il fatto che ci sia voluto tutto questo tempo per arrivarci. Queste persone, così come gli Indignados in Spagna, hanno ragione nel sostenere che c’è qualcosa di sbagliato nella nostra economia. Vorrei in particolare evidenziare due concetti di questi movimenti che mi trovano pienamente d’accordo.
In primo luogo, l’economia di mercato non sta funzionando come dovrebbe, ovvero secondo la regola classica dell’incontro tra domanda e offerta. Sia negli Usa che in Europa le nostre risorse – soprattutto umane – sono sotto utilizzate, mentre ci sono bisogni non soddisfatti: c’è povertà e scarsità di investimenti, sia in Occidente che nei Paesi in via di sviluppo e nei mercati emergenti.
È chiaro che i mercati finanziari non sono riusciti a trasformare i nostri risparmi in modo che possano essere di utilità sociale. Questa mancanza a livello macroeconomico ha causato problemi anche a livello micro: basta pensare ai 7 milioni di americani che hanno perso la casa per la crisi dei mutui. Succede quindi, in America, che le persone vengono buttate fuori di casa per difficoltà finanziarie e che a centinaia di migliaia vivono per la strada.
È evidente che il mercato non sta funzionando come dovrebbe. Un secondo tema rilevante è che il sistema è iniquo e le persone pensano che non ci sia più giustizia. Gli americani non pensano più – usando le parole di un famoso discorso di Abramo Lincoln – che il governo sia “del popolo, fatto dal popolo e per il popolo”, ma che, invece, sia “guidato dall’1%, fatto dall’1% e per l’1%”. In effetti, in America l’1% della popolazione controlla il 45% della ricchezza totale.
La teoria della produttività marginale, che spiega l’ineguaglianza da un punto di vista economico, segue una regola semplice: “coloro che contribuiscono di più alla società dovrebbero avere di più”. Invece, quello che è successo è che durante la grande recessione chi lavorava nella finanza ha ricevuto milioni di dollari di incentivi e bonus. Per cosa? Per aver dato via al crollo dell’economia mondiale? C’è qualcosa di sbagliato, e le persone oggi lo hanno capito. Riconoscono anche che il sistema delle imposte è scorretto, così come la struttura del potere economico. Il “movimento del 99%” (altro nome che identifica Occupy Wall Street) è simile a quello nato a Seattle negli anni ‘90 e, come allora, sta portando alla luce importanti elementi cui il mondo dovrebbe far attenzione. Come conseguenza dei fatti di Seattle, il modo di gestire le forze della globalizzazione cambiò.
Un agenda per la ripresa
Oggi, invece, di quale agenda abbiamo bisogno per la ripresa economica e la crescita? Percorrendo la storia, la memoria va subito alla crisi del ‘29. Anche allora certamente si trattò di una crisi finanziaria, ma fu anche l’effetto di una crisi reale, causata cioè da problemi strutturali: il calo drastico dei prezzi dei prodotti agro-alimentari in un Paese in cui il 51% della forza lavoro era occupata nell’agricoltura. In un clima di questo genere i problemi finanziari e monetari si moltiplicarono. Un noto studioso della Grande Depressione, Ben Shalom Bernanke (Presidente del Comitato dei Governatori della Federal Reserve negli Stati Uniti) notò il grave errore della Banca Centrale nel ridurre l’offerta di moneta negli anni Venti, cosa che ha permesso alla Fed di poter stampare denaro. Con quale risultato? Purtroppo, quello della recessione. In altre parole, negli anni Venti la depressione fu in realtà causata da una crisi dell’economia reale, connessa alla transizione dell’economia dall’agricoltura al settore manifatturiero. Gli Stati Uniti, congiuntamente con molti altri Paesi, applicarono restrizioni sul settore bancario e per i quattro decenni successivi non ci fu crisi economica.
Nel periodo di Reagan e della Thatcher queste restrizioni vennero tolte e, come sappiamo, negli ultimi trent’anni abbiamo assistito al proliferare delle crisi economiche. Tornando alla depressione, fu solo la spesa massiccia sostenuta per affrontare la seconda guerra mondiale a stimolare l’economica americana. Questa spesa risolse anche il problema strutturale, agevolando la transizione del mercato del lavoro dall’agricoltura al manifatturiero, dal rurale all’urbano, creando nuovi posti di lavoro.
Dopo la guerra, in America tutti i soldati vennero formati per poter tornare al lavoro. In questo modo, il governo da un lato stimolò l’economia e dall’altro spostò la forza lavoro dall’agricoltura al manifatturiero, con il risultato di un periodo di crescita fenomenale. Il rapporto fra debito e PIL salì molto, ciononostante dopo la guerra il Paese investì, realizzando in strade, ponti e infrastrutture.
L’analogia tra la Grande Depressione e quella di oggi è quindi chiara: in Europa e America è in atto una transizione dal manifatturiero al terziario. In più, l’Europa ha anche un sistema monetario molto rigido che rende l’adattamento molto difficile. Il risultato è che il recupero è più lento di quanto ci si aspettasse. Dopo aver messo mano alla regolamentazione finanziaria, molti hanno pensato che tutto sarebbe tornato alla normalità, ma questa previsione si è rivelata sbagliata. Le numerose case sul mercato americano non si riescono a vendere neppure a prezzi bassi: nessuno è disposto a comprarle, quindi la ripresa non c’è, perchè – va ricordato – prima della crisi il 40% degli investimenti era nell’immobiliare.
Le aziende hanno capitali ma non investono. È chiaro che l’economia era malata ancora prima che i prezzi salissero: si trattava di una bolla, nella quale il tasso di risparmio era pari a zero e dove la grande maggioranza delle persone non riusciva a accumulare risparmi. Solo i ricchi risparmiavano il 15-20% dei loro introiti, mentre i salari scendevano e le banche incoraggiavano a fare debiti: oggi molte famiglie americane guadagnano meno di ciò che guadagnavano nel 1998.
Due altri importanti fattori oltre a quello della diseguaglianza, hanno causato la crisi: la transizione del lavoro dall’America verso l’Asia e la dipendenza dal petrolio. Dopo la guerra in Iraq, i prezzi del petrolio sono aumentati e gli USA e l’Unione Europea hanno pagato un prezzo molto alto per rifornirsi. Anche la crisi asiatica del 1996 è stata gestita male, con il Fondo Monetario Internazionale che insieme agli Stati Uniti impose misure di austerità che portarono ad un prevedibile effetto di aumento di disoccupazione e abbassamento del reddito. In Indonesia per uscire dalla crisi scelsero una politica di tagli e risparmi: ma risparmiando si abbassa la domanda e si è di nuovo punto e a capo.
Che cosa possiamo imparare da ciò? Riorganizzare, riuscire a controllare la finanza è importante, ma non basta per tornare a crescere. Gli Stati Uniti non riusciranno a recuperare velocemente se continuiamo a tagliare le spese e salvare banche e imprese senza spendere, ridurremmo la nostra domanda. In Europa il problema è più grande, dato che con la creazione della moneta sono state tolte le misure di regolazione, ovvero tasso d’interesse e cambio. È tali misure non sono state sostituite con un altro meccanismo, quindi il governo centrale ha maggiori responsabilità. Dieci anni fa negli USA esisteva un surplus, che oggi non esiste più.
La notizia positiva è che se è possibile che il surplus si riduca così velocemente, si potrà anche tornare a crescere altrettanto rapidamente. Sintetizzando, i quattro elementi che ci hanno portato a questa crisi sono quindi:
• un taglio d’imposte a livelli insostenibili dal parte del governo;
• due guerre che sono costate miliardi di dollari;
• accordi miliardari con “big-pharma”;
• la recessione.
Il miglior modo per gestire un disavanzo, in Usa come in Europa, è quello di tornare a far girare l’economia. Il solo utilizzo di politiche monetarie non funzionerà, anche perchè in un mondo globalizzato i capitali non sono neanche diretti verso Occidente ma verso i paesi emergenti. L’austerità peggiorerà la situazione in Europa e negli Usa: la politica dovrebbe concentrarsi su infrastrutture, istruzione, tecnologia ecc., purtroppo in questo momento non sta andando in questa direzione. Prendiamo l’esempio dell’Islanda, che oggi ha l’8% di disoccupazione con una politica fiscale tutta nuova; ha ristrutturato il proprio debito e sistemato il tasso di cambio, senza misure di austerità.
Estratto dall’intervento di Joseph Stiglitz in occasione del World Business Forum 2011.
Il World Business Forum riunisce annualmente i maggiori esperti mondiali di management e i leader del nostro tempo per riflettere sui temi strategici per il futuro del business. La nona edizione italiana si terrà il 6 e 7 novembre 2012 a Milano: Nouriel Roubini e Parag Khanna tra gli speaker più attesi.
Tutti i dettagli su www.wbfmilano.com
******Chi è Joseph Stiglitz
Uno dei più dinamici economisti della sua generazione, Stiglitz ha ricevuto il Nobel per l’Economia nel 2001. Ex Chief Economist alla Banca Mondiale, è attualmente Professore alla Columbia University. Inizia la sua carriera politica nel Council of Economic Advisors del Presidente Clinton (1993-1995), che poi presiede dal 1995 al 1997. Nel 2002 ha pubblicato “Globalization and Its Discontents”, dove analizza gli errori delle istituzioni economiche internazionali – e in particolare del Fondo Monetario Internazionale – nella gestione delle crisi finanziarie che si sono susseguite negli anni novanta. Nel 2009 è stato nominato presidente della Commissione ONU di esperti sulla riforma del sistema monetario e finanziario internazionale, giocando un ruolo chiave al fianco di Banca Mondiale e FMI per creare un ordine economico globale sostenibile. Di recente è stato una voce autorevole sulla crisi europea del debito ed è attualmente Presidente dell’International Economic Association. Le sue riflessioni sono raccolte nella sua più recente pubblicazione, Freefall. Stiglitz è nato a Gary, Indiana, nel 1943.