editoriale

Uber e la rivolta dei tassisti, un’occasione di riflessione

Il caso del servizio di auto con autista prenotabile da un app, di grande attualità a Milano, è un esempio di disruptive innovation inevitabile? Siamo dunque davanti a un caso di neo-luddismo? La risposta è sì e no allo stesso tempo.

Pubblicato il 21 Mag 2014

Uber

  @umbertobertele

Umberto Bertelè, che presiede l’Advisory Board di ICT4Executive, è ordinario di Strategia e sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano e presidente onorario del MIP. È autore del libro “Strategia” edito da Egea Clicca qui per scaricare il pdf

In un’era contraddistinta da quella che Downes e Nunes hanno denominato big bang disruption, dall’entrata in gioco cioè in molti comparti dell’economia di business model fortemente innovativi (figli delle nuove tecnologie e dei cambiamenti nelle abitudini da esse indotti) con effetti spesso devastanti sugli equilibri esistenti, il caso Uber – di grande attualità a Milano – deve essere fatto rientrare in questa categoria? Siamo davanti a un caso di neo-luddismo?

La risposta è sì e no allo stesso tempo. Sono sicuramente le nuove tecnologie, in particolare l’accesso a Internet in mobilità, che permettono l’esistenza stessa di imprese come Uber; così come hanno permesso ad esempio la nascita e l’esplosivo sviluppo di Airbnb (che promuove la condivisione di appartamenti e stanze private in alternativa agli alberghi) o di WhatsApp (che offre un’alternativa a costo zero o quasi agli sms). Ma le tecnologie rappresentano anche spesso il grimaldello per rompere, sotto il velo della modernità, le regole del gioco esistenti. Uber amplia di fatto il numero dei tassisti (lo stesso obiettivo che si era posto anni fa Bersani con le meno tecnologiche lenzuolate liberalizzatrici), riducendo drasticamente il valore delle licenze ufficiali, e per questo viene combattuta in molte città del mondo e in alcune è già stata bandita: a Bruxelles e Berlino in Europa; a New Orleans, Miami e Portland negli Stati Uniti. Airbnb amplia di fatto la disponibilità alberghiera ed è accusata in molte parti del mondo di concorrenza impropria, per i minori vincoli cui deve soggiacere. WhatsApp ha messo a nudo (come in precedenza Skype) la discriminazione dei prezzi, in funzione degli utilizzi, attuata dagli operatori telecom. La stessa Amazon negli Stati Uniti ha sconfitto le librerie, e sta infliggendo duri colpi al retail tradizionale, non solo per l’indubbia elevata qualità del servizio che offre ma anche cavalcando una vecchia norma (nata per tutt’altri motivi e mantenuta in vita con un lobbying intenso) che la esenta dall’applicazione  dell’equivalente locale dell’IVA.

La battaglia in corso è quindi ad ampio spettro e sarebbe a mio avviso opportuno sfruttare l’occasione per una riflessione seria

  • sulle logiche autorizzative in vigore, per valutare l’opportunità di un grado di concorrenza maggiore;
  • sulle regole cui i diversi soggetti devono sottostare, per evitare differenziali competitivi impropri.

Una riflessione senza pregiudizi

  • che cerchi di individuare eventuali modalità compensative per gli incumbent danneggiati, ma non rinunci a una maggiore concorrenza se ritenuta di interesse collettivo;
  • che garantisca parità concorrenziale, dal punto di vista degli oneri normativi (possibilmente riducendo quelli esistenti), alle diverse tipologie di attori;
  • che eviti di penalizzare tutto ciò che, essendo nuovo, disturba gli equilibri esistenti: come talune prese di posizione delle nostre authority e dei nostri tribunali potrebbero talora far pensare;
  • che allo stesso tempo eviti di vedere tutto il buono in ciò che è nuovo: l’esperienza mostra come le stesse imprese che inneggiano al libero mercato quando si devono fare strada spesso inseguano il sogno di diventare monopoliste una volta raggiunto il successo.

È un desiderio irrealistico il mio? Forse sì, perché la bussola che spesso orienta le decisioni è la conquista del consenso immediato. Ma non credo che potremo esimerci a lungo dal percorrere questa strada, confrontandoci anche con le soluzioni che prevarranno negli altri paesi, in una fase storica di grandi transizioni quale quella che ci aspetta.

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