Negli ultimi anni Luca Attias, il CIO della Corte dei Conti, si è evidenziato come uno dei principali promotori della trasformazione digitale nella PA italiana, e come uno dei più efficaci divulgatori dei progressi e delle criticità di questo percorso, grazie a un mix vincente di competenza, passione, vision, e comunicativa semplice e diretta.
L’anno scorso al Forum PA la sua intervista a Diego Piacentini, Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale, è stata certamente il momento più interessante della manifestazione. Anche per questo, durante il Forum PA 2018, conclusosi pochi giorni fa, Attias è stato coinvolto in ben sei eventi, tra cui un inedito “processo” (“Quanto incide il ritardo digitale della PA sul PIL?”) in cui ha fatto la parte del Pubblico Ministero (vedi foto). Qui approfondiamo il suo intervento in un altro degli eventi di Forum PA 2018, il convegno “Impatti organizzativi della Digital Transformation”, in cui come sempre Attias ha fornito spunti illuminanti “dall’interno” sul cammino accidentato dell’innovazione della Pubblica Amministrazione.
«Alla Corte dei Conti già dalla fine degli anni ’90 l’aspetto organizzativo (unito ad altri quali la gestione delle risorse umane, la comunicazione, la managerialità, e anche l’etica) è considerato fondamentale per poter avere qualche possibilità di attuare un sostanziale processo di trasformazione digitale», ha spiegato Attias, la cui carica ufficiale è “Responsabile direzione generale dei sistemi informativi automatizzati della Corte dei Conti”.
«Non mi soffermo sui dettagli di quello che abbiamo fatto – dal seguire le regole base dell’ingegneria del software alle certificazioni di project management, ITIL, change management, lean -. Semplicemente abbiamo messo in pratica più velocemente che potevamo la “letteratura” di come deve essere strutturata un’organizzazione moderna per sfruttare al meglio le nuove tecnologie».
«Tutti devono occuparsi di digitale, ognuno facendo il suo mestiere»
Un tassello decisivo in questo percorso è la creazione di solidi rapporti di collaborazione con altri enti pubblici, tra cui sottolineo in particolar modo quello con il Team Digitale di Piacentini: abbiamo fatto rete perché ovviamente non si può avere in casa tutte le competenze per la trasformazione digitale».
Un altro fattore critico di successo è quello che Attias chiama “contaminazione digitale”. «Per lo più ancora oggi tutto il processo di trasformazione digitale della PA viene demandato alle strutture informatiche (laddove esistenti) e ciò ha contribuito in buona parte al fallimento del processo: gli informatici da soli non possono farcela. Il digitale non è un “moloch” a sé stante. Tutta l’organizzazione, chi più chi meno, deve occuparsi di digitale. Ma ognuno facendo il proprio mestiere, contribuendo con le proprie competenze al risultato finale. Per questo dal 1998 in ogni ufficio della Corte dei Conti ci sono dei referenti informatici: la contaminazione è un meccanismo positivo, come nell’arte e nella musica».
«Di 12mila enti pubblici, 11.500 non possono rispettare la legge»
La realtà generale della PA italiana però è un po’ diversa. «I piani e le leggi – dal decreto 39/1993 al CAD – da almeno 25 anni dicono che ogni PA deve avere un CIO, con forti competenze tecnologiche e manageriali, e darsi un’organizzazione dell’IT strutturata e pronta alla trasformazione digitale. Il problema è che delle 12mila amministrazioni pubbliche almeno 11.500, se non di più, non possono seguire questo approccio, non saranno mai in grado di farlo, e di questo dobbiamo prendere atto».
Il che non significa, precisa il CIO della Corte dei Conti, che non si debbano digitalizzare, anzi. «Però non devono essere costrette a gestire data center, sviluppare applicazioni, acquistare e costruirsi la propria informatica. Debbono utilizzare servizi, magari in cloud, che qualcuno – possibilmente delle strutture centrali o regionali, con sufficiente massa critica e innovative – gli mette a disposizione. Questo è un punto chiave, non è tanto un problema di budget e risorse, ma di riequilibrio rispetto a una situazione in cui da una parte si danno ad Agid o Consip funzioni assolutamente sovradimensionate rispetto all’organico, dall’altra abbiamo enti pubblici inutili con migliaia di persone, che non hanno una missione».
Da dove cominciare? Diffondiamo la “consapevolezza del digitale”
Di fronte a un quadro così critico è difficile capire da dove cominciare, ma Attias ha le idee chiare. «Il punto di partenza è la divulgazione della consapevolezza delle potenzialità della digitalizzazione nella società, e in particolare tra i dipendenti pubblici. Con la SNA (Scuola Nazionale dell’Amministrazione, ndr) e il Team Digitale abbiamo strutturato dei corsi di trasformazione digitale: non sono corsi tecnici, sono divulgativi. Anch’io ne tengo uno, e in questa esperienza, ma anche girando nelle PA, per convegni e nelle università, ho constatato che di trasformazione digitale della PA si sa ben poco. Anche nella stessa PA. Nessuno sa cosa sia il CAD, chi sia Piacentini, o cosa significhi “soft skills”. Insomma, c’è un problema serio di consapevolezza: se non risolviamo prima questo, tutti gli altri sforzi sono inutili».
Questa esperienza della SNA, continua Attias, è piccola, è una goccia nel mare, ma è significativa: «Stiamo pensando a come “industrializzarla”, perché il potenziale dei dipendenti pubblici è straordinario, la PA non sa valorizzare un potenziale enorme».
Insomma, la digitalizzazione deve “permeare” l’organizzazione e la gestione delle risorse umane nella PA, gli informatici non possono farla da soli, nessun ente pubblico può farla da solo, e occorre diffondere a livello capillare una “cultura della trasformazione digitale della PA”.
«Con lo Smart Working si può “misurare”, e questo fa paura»
Ma come trasformare l’atteggiamento e il modo di lavorare delle persone per favorire l’innovazione? «Smart Working, team trasversali, approcci Lean sono alcune delle risposte. Limitandoci solo sullo Smart Working, la PA italiana è l’ultimo baluardo di resistenza a questo modello (solo il 5% delle amministrazioni ha un progetto strutturato, ndr), che invece nel privato si sta diffondendo bene. E pensare che basterebbe il 20% di Smart Working a Roma e ogni problema di traffico sul Grande Raccordo Anulare sarebbe risolto».
Il “Lavoro Agile”, sottolinea Attias, è uno dei temi più dibattuti nella PA, c’è un numero enorme di convegni ogni anno, «ma il problema non è lavorare smart, è lavorare. Lo Smart Working favorisce il monitoraggio, la “misura” di ciò che si fa, e questo fa paura. Molti non vogliono su di sé la “lente d’ingrandimento” dello Smart Working: secondo alcuni addirittura il rischio è che il dipendente possa lavorare troppo».
Poi c’è un secondo scoglio che è la normativa di inquadramento dello Smart Working nella PA. «Alla fine avremo (come per il CAD) la norma più avanzata al mondo sullo Smart Working ma non lo praticheremo, perché se si parte dal principio di riprodurre una copia esatta dell’ufficio a casa del dipendente – rete, device, telefono, sedia ergonomica, persino il bagno e le scale – non si può arrivare da nessuna parte. Questi sono i due ostacoli per cui praticamente oggi la PA italiana è l’unico posto del mondo dove lo smart working non decolla. Nonostante i convegni e i corsi di formazione. E con buona pace del traffico sul Raccordo Anulare».