Sono tante le aziende italiane che svolgono attività di import-export, molto poche, invece, quelle che decidono di aprire sedi all’estero, diventando quindi multinazionali. Si tratta di un passaggio complicato, che richiede attente valutazioni e capacità di investimento, ma che è cruciale per la crescita del business, a volte imprescindibile se si vuole competere ad armi pari con le altre realtà (multinazionali) del mercato. Per comprendere cosa significa, nel concreto, costruire una strategia di internazionalizzazione, ne abbiamo parlato con due manager con ampia esperienza, Luca Quagini e Simone Battiferri, ospiti all’evento Demand Generation Lab.
Luca Quagini è il fondatore e Amministratore Delegato di SDG, una boutique di consulenza manageriale focalizzata sui Business Analytics, cioè sull’uso evoluto della Business Intelligence a supporto diretto della modellazione del business, che oggi impiega 1700 persone ed è presente negli Stati Uniti in Spagna, UK, Portogallo e Middle-East. Un’azienda che ha saputo anticipare con lungimiranza quello che oggi si chiama l’approccio data-driven del business, adottato da tutte le organizzazioni di successo.
Who's Who
Luca Quagini
Founder e AD di SDG
Simone Battiferri attualmente ricopre il ruolo di Head of LATAM (Latin America) del Gruppo Digital360 di cui ne sta guidando l’internazionalizzazione in particolare in Sudamerica, area che conosce molto bene perché ha ricoperto, tra gli altri, il ruolo di CEO di Telecom Argentina, la filiale di Telecom Italia in Argentina insieme ad altri incarichi apicali di respiro internazionale.
Who's Who
Simone Battiferri
Head of LATAM, Gruppo Digital360
Quali sono gli obiettivi di una strategia di internazionalizzazione? Perché le imprese scelgono ed è importante espandersi in altri mercati e perché questa propensione è piuttosto scarsa in Italia?
Simone Battiferri «In generale le aziende si internazionalizzano per avere nuovi mercati di sbocco. Un altro obiettivo minore, in particolare per imprese di produzione, è quello di ridurre i costi di produzione. È certo che in questo ambito l’Italia ha una posizione diversa rispetto ad altre realtà, ad esempio Francia e Germania, che hanno circa il doppio delle nostre multinazionali. I motivi sono vari, ma sicuramente una componente fondamentale è data dal nostro tessuto aziendale: le realtà grandi, con più di 500 dipendenti, in Italia sono molto poche, le multinazionali solo il 3%, e quasi tutte superano i 100 milioni di euro di fatturato. È chiaro che il fenomeno dell’internazionalizzazione coinvolge aziende che o sono molto smart, o hanno già una certa maturità, e questo perché le dimensioni dell’organizzazione, come anche la struttura organizzativa, devono essere adeguate ad affrontare un percorso che presenta sfide importanti, tra cui anche quella finanziaria, perché l’internazionalizzazione costa. A ciò si uniscono altri fattori di successo. Espandersi all’estero implica cambiamenti profondi all’interno dell’azienda: i modelli di governance, nella quasi totalità dei casi, vengono cambiati e quindi occorre superare l’inerzia rispetto al passato. Occorre poi comprendere a fondo i mercati locali: noi italiani siamo dei grandissimi viaggiatori, ma poco disposti a lavorare all’estero, che significa comprendere e adattarsi a culture diverse. Non è detto che, senza i dovuti adattamenti, funzionino in Italia modelli che sono stati di successo in altri Paesi, e viceversa. Infine, c’è il tema del modello di controllo: bisogna saper conciliare l’autonomia del Paese di destinazione con la centralizzazione, trovare il giusto bilanciamento».
Quagini, nella sua idea imprenditoriale l’internazionalizzazione è stata presente sin dall’inizio, negli agli anni 90, quando ancora eravate una piccola realtà. Ci spiega i motivi di questa scelta?
Luca Quagini «La scommessa che abbiamo fatto a suo tempo, ovvero comporre un’offerta che fosse la combinazione di consulenza manageriale e tecnologie di trattamento dei dati, era piuttosto “eretica”, anticipativa. Questo modello di business non poteva prescindere dalla dimensione internazionale. Vedevamo una domanda emergente, però nel contesto in cui andavamo a proporci già allora operavano fornitori software e competitor – i grandi nomi della consulenza – attivi su scala mondiale. Anche i clienti più pronti erano multinazionali. Abbiamo capito che occorreva diventare nel più breve tempo possibile un player internazionale, altrimenti saremmo stati troppo fragili per reggere la competizione e per fare partnership con i provider di servizi e di soluzioni.
Non solo, ci siamo anche detti che se non riuscivamo a superare i confini su pratiche che avevano un’origine anglosassone – la cultura del management consulting americana – voleva dire che il nostro vantaggio competitivo sarebbe stato breve, i grandi nomi avrebbero riempito velocemente l’arena competitiva.
Inoltre, anche per quanto riguarda la ricerca di talenti sarebbe stato sempre più difficile arrivare al risultato di oggi: dei 1700 consulenti che abbiamo, solo 400 sono italiani».
Come si fa a capire quali sono i mercati dove è più opportuno crescere ed espandersi? Quali tipo di valutazioni bisogna fare per capire dove andare?
Simone Battiferri La scelta del mercato di riferimento dipende molto dal prodotto o dal servizio. Un’azienda di produzione cercherà mercati dove ha costi più bassi, mentre un’azienda di servizi cercherà mercati dove c’è spazio e dove invece le tariffe sono più alte.
Una cosa però è comune a tutti: una volta stabilita qual è la strategia di prodotto-servizio, occorre fare un’analisi molto approfondita dei mercati potenziali. Oggi il modello più diffuso è quello di M&A (Mergers&Acquisition, Fusioni e Acquisizioni), perché i risultati vanno perseguiti e ottenuti in tempi brevi. Cinquant’anni fa era diverso: si andava in un altro Paese, si apriva la filiale e poi piano piano si cresceva. Occorre verificare sul mercato se esistono le caratteristiche che lo rendono fertile. Un mercato estremamente frammentato, ad esempio, accoglie con maggior valore un soggetto più grande che riesca a consolidare; al contrario, un mercato dove sono già presenti attori molto forti chiaramente è più difficile da penetrare.
Credo che il segreto sia dedicare tempo a una fase di analisi e di studio che può essere anche di mesi, per verificare che l’effettiva strategia che si vuole mettere a terra sia realizzabile nel Paese di destinazione».
Luca Quagini «SDG Group offre servizi professionali, è un “people business”, non ci sono asset fisici da delocalizzare. Essendo human intensive si ha la duplice difficoltà di attrarre le persone che andranno a costituire la base locale delle Operations: si cercano alleanze, si cercano delle società – se parliamo di operazioni di M&A o – individui singoli – per creare di partnership – con cui condividere la visione. Siamo partiti su Spagna, poi UK, Francia, Germania e in questo momento i mercati dove le sedi e i team sono i maggiori sono proprio Spagna e Stati Uniti. Non è un caso: Barcellona attualmente può definirsi la Silicon Valley europea.
L’area più recente è quella del Middle-East, dove il mercato è molto ricettivo: sta investendo nel costruire la struttura dei servizi per la loro economia, attratto dalle competenze che possono essere fornite dalle società di matrice occidentale.
Si cerca un fil rouge, la sintonia con l’idea e la visione d’origine: nel nostro people business il buon esito dipende anche dalla persona quindi bisogna avere quella chimica che può originarsi anche da un background culturale comune».
Digital360 ha intrapreso un percorso di espansione scegliendo mercati affini, Spagna e Latam. Qual è stata la scelta strategica del Gruppo e quali passi sono già stati fatti?
Simone Battiferri «Il fulcro dell’attività di Digital360 sono i contenuti, quindi per vicinanza culturale ci siamo rivolti ai paesi di lingua spagnola, un mercato molto grande, da 4,5 triliardi di dollari con 550 milioni di persone che parlano la stessa lingua. L’aspetto glocal chiaramente non manca perché la Colombia non è uguale al Messico o all’Argentina: ci sono profonde differenze culturali ma sicuramente meno che con la Germania.
Come dicevo, siamo partiti con un’analisi di dettaglio: la nostra strategia è fortemente basata sull’M&A, almeno in una prima fase, che sarà poi seguita una fase di crescita organica dove le aziende diventate parte del Gruppo potranno collaborare e cooperare. Abbiamo predisposto un piano di integrazione che vedrà luce nei prossimi anni e lo stiamo facendo all’insegna della rapidità. Crediamo che sia il momento giusto, perchè il mercato sudamericano dell’editoria e del marketing B2B in ambito digital presenta caratteristiche molto simili a quello italiano di 5-6 anni fa: da una parte un ritardo nella digitalizzazione di imprese e pubbliche amministrazioni e una presenza di molte PMI, dall’altra il ruolo centrale sul mercato degli stessi Vendor tecnologici. Ci aspettiamo inoltre una forte crescita della digitalizzazione, grazie all’impulso culturale derivante dalla pandemia e all’arrivo di consistenti fondi pubblici per il rilancio dell’economia. È un contesto competitivo favorevole, molto frammentato e privo di operatori con quote di mercato significative; molteplici paesi che condividono la lingua spagnola, consentendo così la creazione di un unico team ed un’unica piattaforma condivisi.
È un ambizioso percorso che intende replicare il modello di sviluppo già sperimentato con successo da Digital360 in Italia, basato sia su un’importante crescita organica che sull’acquisizione ed integrazione di numerose realtà̀ imprenditoriali, con l’obiettivo finale di consolidare mercati molto frammentati».
È chiaro che l’internazionalizzazione non è un percorso semplice, gli ostacoli ci sono e sicuramente ne avrete incontrati diversi anche voi. Ricorda un momento particolarmente complicato che avete affrontato?
Luca Quagini «Premetto che crescere era, è e sarà una scelta obbligata, sono operazioni necessarie, che danno beneficio. Quando si cresce però aumenta anche la portata degli accordi e delle alleanze, i vincoli e i rischi delle operazioni. Aumenta il rischio imprenditoriale per l’aver raggiunto una dimensione che non è più quella del team di professionisti, ma di un’organizzazione complessa.
Nello stringere partnership, le criticità che abbiamo avuto sono quelle che ritengo tipiche quando i soci vedono un’opportunità in maniera diversa tra loro, non conciliabile. A quel punto si deve fare una scelta, a volta si rivela giusta, altre sbagliata. Faccio un esempio. La Germania è stata uno dei nostri primi Paesi di sviluppo, ma quando abbiamo deciso di fare l’operazione di M&A con il gruppo francese Alten i partner locali hanno dato, per ragioni che stanno nella dimensione personale delle prospettive, parere negativo. Abbiamo deciso di non mettere nel perimetro della nuova SDG la Germania. Ma al di là di questo, nessuno dei partner del Gruppo è uscito dalla compagine e questo vuol dire che le scelte e in particolare le operazioni di internazionalizzazione vanno a creare un rafforzamento del posizionamento, della competitività, del potenziale. Hanno anche un riflesso molto positivo per il business locale, per la visibilità che si ottiene o la solidità che si riesce a dimostrare».
Simone Battiferri «L’elemento critico principale nella strategia di internazionalizzazione sono le persone, concordo. Serve sempre una notevole sensibilità per riuscire a capire culture diverse dalla nostra e serve anche un po’ di equilibrio e umiltà della casa madre verso le società che fanno parte del gruppo. Bisogna calarsi nella realtà locale ed evitare di prendere decisioni centralizzate molto rigide perché a volte si rischia di fare delle gaffe importanti oppure di far semplicemente confusione.