Il decreto sulla Spending Review, tassello fondamentale nel processo di risanamento dell’economia nazionale che il governo Monti sta portando avanti, individua la strada del risparmio attraverso tagli sui fabbisogni e razionalizzazioni della spesa. Ma si potrebbe fare di più e meglio con un utilizzo sapiente delle tecnologie digitali, come confermano numerose esperienze di successo che pure nel Paese non mancano. Partendo proprio dallo studio dei casi di successo, anche internazionali, i ricercatori della School of Management del Politecnico di Milano hanno quantificato i benefici potenziali derivanti dall’introduzione di questi strumenti. Ne parliamo con Alessandro Perego, che insieme ad Andrea Rangone e Mariano Corso è responsabile scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale.
Who's Who
Alessandro Perego
Professore ordinario di Logistics and Supply Chain Management Vicerettore per lo Sviluppo sostenibile e Impatto del Politecnico di Milano Membro dell’Executive Board del Politecnico di Milano Responsabile Scientifico degli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano che ha co-fondato nel 1999 Si occupa da oltre 20 anni di analisi strategica delle tecnologie digitali Consigliere di Amministrazione di Polimi Graduate School of Management (la business school del Politecnico di Milano) Fondatore e Responsabile Scientifico del Sustainable Food Lab E' fondatore e azionista di Digital360 SpA (azienda quotata all’Euronext Growth Milano) Presidente di AMAT (Agenzia del Comune di Milano per l’Ambiente, la Mobilità, il Territorio) Membro fondatore della Fondazione Banco Alimentare Presidente onorario di Number1 Logistics Consigliere di amministrazione di Tesisquare
Professor Perego, si può fare di più o qualcosa di diverso, rispetto a quanto previsto dal decreto sulla Spending Review?
Il programma è ambizioso, perché agisce per ridurre la Spesa Pubblica, oggi pari a circa 800 miliardi di euro, il 50% del PIL nazionale. La lotta agli sprechi è fondamentale per continuare a spendere, con l’obiettivo, però, di spendere meglio. I 140 miliardi relativi ai consumi intermedi, cioè agli acquisti che la PA fa per poter funzionare e per poter produrre i servizi agli utenti, sono uno dei gruppi di spesa su cui agire per avere risultati concreti già nel breve periodo. Noto, però, che il dibattito che fino a oggi ha caratterizzato le riflessioni sulla Spending Review, ha trascurato le tecnologie, soprattutto quelle digitali, come strumenti in grado di generare valore permanente e di produrre benefici lungo tutta la catena, dalla PA fino al cittadino. Se oggi la PA impiega qualche mese per fare un bando di gara, se paga i fornitori, se va bene, a 180 giorni, se acquista siringhe monouso da 10 ml con variazioni di prezzo del 130%, o del 170% per le garze sterili, qualche domanda dobbiamo porcela su come intervenire per far funzionare meglio la macchina pubblica, non limitandoci a pensare che sia solo un problema di tagli della spesa o di normative inefficaci. In questo contesto la tecnologia può svolgere un ruolo di primo piano.
Il riferimento è a qualcosa in particolare?
Certamente. Penso all’eProcurement, cioè alle soluzioni telematiche che hanno già dato prova di essere in grado di ridurre i prezzi di acquisto e di migliorare la produttività del personale. Per dare un’idea: in Italia parliamo di qualcosa pari solo al 5% degli acquisti della PA , circa 7 miliardi di euro, mentre in UK il valore è di 30 miliardi, cioè il 20% degli acquisti. Prima, però, è bene dare qualche informazione di contesto. In Italia i soggetti che effettuano gli acquisti nella PA sono: singoli enti, ben 11 mila con circa 12.500 stazioni appaltanti, centrali di acquisto regionali e nazionali. Centralizzare gli acquisti aiuta a comprare meglio, a migliorare la trasparenza e a evitare inspiegabili oscillazioni di prezzo per i medesimi articoli; stimola, inoltre, la competitività e agevola il sostegno ai fornitori locali, che possono servire territori più ampi. Ma non basta. Occorre associare alle procedure centralizzate, anche una maggiore diffusione degli strumenti di eProcurement. Mi riferisco a Gare e ad Aste elettroniche, che riducono i prezzi di acquisto in media del 10- 15% e del 30-40% i tempi delle procedure. Ma ci sono anche i Mercati Elettronici, che migliorano l’efficienza e riducono del 60% i tempi delle procedure tradizionali, o i Negozi online, a supporto delle convenzioni già stipulate centralmente, che snelliscono il carico di lavoro dell’Ufficio Acquisti.
Va bene. Ma se dovessimo tradurre tutto in moneta, di che cifre parliamo?
Se limitiamo l’azione solo a quel 30% – 40 miliardi circa – di acquisti pubblici più facilmente aggredibili, perché riferiti a categorie merceologiche non particolari, abbiamo stimato che l’adozione più consistente dell’eProcurement è in grado di generare benefici di circa 7 miliardi di euro all’anno, così ripartiti: 13% medio di risparmi sui prezzi d’acquisto pari a circa 5 miliardi di euro e altri 2 miliardi dal miglioramento della produttività del lavoro nei processi di acquisto e nelle procedure amministrative. Quest’ultimo dato significa 100 milioni di ore-persona in meno, nell’ipotesi che il 30% dei processi di acquisto a cui ci riferiamo, sia completamente “digitalizzato”. Potremmo così parlare di un ulteriore passo in avanti: dall’eProcurement, concentrato sulla fase finale dell’acquisto, al Procure-to-Pay, che riguarda l’intero processo, dalla negoziazione al pagamento della fattura che, ovviamente, dovrebbe essere in formato elettronico, per facilitarne l’archiviazione digitale. E mancano altri benefici pure importanti, ottenibili con la diffusione delle tecnologie su tutto il processo: dalla possibilità di effettuare Spending Analysis, per controllare davvero gli sprechi, alla maggiore velocità dei processi di acquisto, dalla maggiore trasparenza nelle diverse fasi, alla possibilità per cittadini e imprese di poter disporre in tempi più brevi di beni e servizi. La gestione del ciclo passivo nella modalità Procure-to-Pay consente di ridurre una delle cause – non l’unica – dei lunghi tempi di pagamento della PA verso i fornitori, che la stessa Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici non esita a classificare tra quelle di primaria importanza, perché in grado di alterare gli equilibri finanziari delle imprese e il livello di concorrenza.
Quali sono, all’atto pratico, i passi che si dovrebbero compiere e quali le aspettative?
Sicuramente il legislatore può dare una grossa mano. Il recente decreto sulla Spending Review contribuirà a ridurre i prezzi, a migliorare il controllo e la trasparenza negli acquisti pubblici, allargando a tutta la PA le convenzioni stipulate da Consip o dalle centrali regionali, che, se non utilizzate, devono comunque essere prese obbligatoriamente come riferimento massimo per i prezzi di acquisto. Il vero impulso lo si avrà, però, con il decreto di Agenda Digitale, che introduce l’obbligo per tutta la PA di utilizzare le procedure telematiche per l’acquisto di beni e servizi sotto la soglia comunitaria. Detto questo, già oggi si potrebbe gestire circa il 50% dei 40 miliardi per beni e servizi, solo aumentando la diffusione dell’e- Procurement, mentre l’altro 50% necessita di un tempo di 2-3 anni, per la particolarità dei beni e le normative in essere. Una giusta spinta legislativa potrebbe far lievitare senza difficoltà i valori dell’eProcurement al 60-70% dell’intera spesa pubblica in beni e servizi.
Qualche esempio virtuoso nel nostro Paese già esiste?
Esistono esempi di aziende pubbliche e private, come Eni, Enel, Alitalia, o di enti come l’Ospedale di Niguarda o il Comune di Livorno, che, anche per le procedure più complesse, utilizzano l’eProcurement per quote significative degli acquisti. La formazione, invece, per i buyer e per coloro che, occasionalmente, si occupano di acquisti deve riguardare più gli strumenti che le procedure telematiche, perché più semplici di quelle tradizionali. Le organizzazioni stesse dovranno accettare la sfida del cambiamento, per l’importanza che il procurement pubblico ha, non solo per i volumi e i valori che esprime, ma per gli impatti sull’intero sistema economico. Un’indagine dell’AVCP ha evidenziato che su 38 mila imprese aggiudicatarie di un appalto, più dell’80% erano micro e piccole imprese, un dato che, da solo, spiega l’attenzione che merita il procurement pubblico.