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Software open source nella PA, una scelta da valutare caso per caso

La normativa è quasi definita: il CAD già stabilisce un obbligo di preferenza verso il software libero, ma è necessaria una valutazione comparativa per la quale l’Agenzia per l’Italia Digitale deve stabilire le modalità. Il criterio di valutazione di ciascuna PA dovrà essere la possibilità di rendere la macchina amministrativa più efficiente e più efficace nella persecuzione dei propri fini

Pubblicato il 11 Ott 2013

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L’annosa questione sull’uso di software libero e open source nella PA sembra volgere al termine. Chiuso il tavolo di lavoro e discussione sulla valutazione comparativa ai sensi dell’art. 68 del Codice dell’Amministrazione Digitale, istituito presso l’Agenzia per l’Italia Digitale a gennaio scorso, verrà ora avviata una consultazione pubblica: è l’ultimo passaggio per la definizione delle linee guida per la PA italiane, ovvero lo strumento operativo per l’acquisizione di software.

In attesa che le linee guida assumano i contenuti definitivi e indichino, con estrema semplicità e praticità, la direzione da percorrere, è il momento di iniziare a trarre qualche conclusione e offrire spunti sull’uso del software libero e open source nella PA, in particolare, sulla base di un paio di elementi che non sono mai sufficientemente considerati: che la PA non è un soggetto “normale” che acquisisce software per scopi egoistici e con mezzi privati e che non deve perseguire le stesse finalità che persegue un privato.

Per la PA sussiste un obbligo di preferenza verso il software libero o a codice sorgente aperto (open source) ai sensi del comma 1 ter dell’art. 68 del CAD. Tuttavia, tale preferenza non può prescindere dalla “valutazione comparativa”, appunto, sulla quale l’Agenzia per l’Italia Digitale deve stabilire ora modalità e criteri che consentiranno di giustificare le scelte della PA nell’acquisizione di programmi per elaboratore.

Ciò detto, ogni ente pubblico può ora interrogarsi su cosa realmente lo renderebbe differente rispetto a un qualsiasi altro soggetto quanto alla possibilità di acquisire e rilasciare software sotto condizioni di software libero e con codice ispezionabile. La risposta più semplice è: nulla.

La PA, anche quando è soggetto attivo nella progettazione e nella realizzazione di software, e non solo quando si limita ad acquisirlo, è sostanzialmente un utente dello stesso. Salvo casi eccezionali, scopo della PA è quello di servire la comunità e i cittadini secondo le proprie finalità e competenze. Per ciò, anche quando si avvale di enti strumentali esterni, inclusi quelli tipicamente civilistici (come le società miste o interamente possedute) l’attività della PA non è mai principalmente diretta alla realizzazione di utili o all’acquisizione di una posizione di mercato, in quanto l’attività economica eventualmente svolta è pur sempre diretta alla soddisfazione degli interessi pubblici strumentalmente perseguiti tramite strumenti civilistici.

Non fa eccezione il caso in cui – direttamente o attraverso uno qualsiasi degli strumenti operativi messi a disposizione dal diritto amministrativo – la PA indulge nella progettazione, realizzazione e distribuzione del software, per cui, il valore del software così acquisito o realizzato non sta nel valore commerciale, ovvero nella potenziale vendita di diritti acquisiti sul software, ma nel valore d’uso, ovvero nella possibilità di rendere più efficiente la propria macchina amministrativa e la persecuzione dei fini propri della singola PA attraverso strumenti efficaci. In altre parole, per la PA il software non è un prodotto, ma è un servizio e non nel senso fatto proprio dalla disciplina sui contratti della PA, ma nel senso aziendalistico del termine.

Il valore del software nella PA

Per la PA è importante che il software funzioni coerentemente con gli scopi al quale è dedicato, non quanto valga in sé. Ciò porta alla conclusione che il ritorno dell’investimento fatto si misura essenzialmente in termini di efficienza. Efficienza che a sua volta deve essere misurata sia in termini immediati (risparmio di risorse a parità di output ovvero aumentato output a parità di risorse), sia in termini di risparmio a lungo termine (minori investimenti per l’aggiornamento, l’adattamento, la migrazione al raggiungimento dell’obsolescenza o alla comparsa di sistemi maggiormente efficienti), sia – infine – in termini di ricadute positive (“spillover effect”).

Nessun dubbio deve sussistere in merito al diritto per una PA di acquisire software sotto condizioni di software libero. Sia nel caso si tratti di una pura acquisizione di software pacchettizzato (generico), come una semplice applicazione per ufficio (tipici esempi: un browser Internet, un word processor, un programma di posta elettronica, un sistema operativo per PC), sia nel caso in cui il software venga acquisito dalla PA attraverso una realizzazione ad hoc oppure attraverso l’adattamento e la personalizzazione di software preconfezionato o infrastrutturale, in cui vi è un investimento sostanziale, in termini economici, da parte della PA ed in cui, di regola, il software è soggetto alle norme sul riuso.

Il concetto di fondo di tutto quanto detto sinora è stato ripreso dalla Corte Costituzionale nel 2010, con la Sentenza n. 122 del 22 marzo. Quelle di software libero e di software con codice ispezionabile non sono nozioni concernenti una determinata tecnologia, marca o prodotto, bensì esprimono una caratteristica giuridica. In sostanza, secondo la Consulta, ciò che distingue il software libero da quello proprietario è il differente contenuto dell’accordo negoziale (licenza), posto a fondamento della disciplina dei diritti di utilizzazione del programma. La scelta circa l’adozione dell’uno o dell’altro modulo negoziale appartiene alla volontà dell’utente, utente che, nel caso che qui si discute, è la Pubblica Amministrazione.

*Avv. Guglielmo Troiano, Array – Studio Legale

http://arraylaw.eu

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