«Questo rapporto dell’Istat è particolarmente interessante perché non si concentra soltanto sulle PMI o sui distretti, ma sulle differenze di competitività tra i settori e all’interno di essi: grazie all’uso integrato di dati aggregati e dati molto specifici si evidenzia che i comportamenti delle singole imprese contano, e che nello stesso settore e territorio si può vincere e si può perdere». Così Gianluca Spina, Presidente del MIP-Politecnico di Milano, ha introdotto la presentazione del “Rapporto 2014 sulla competitività dei settori produttivi” in un incontro organizzato appunto dal MIP presso il Politecnico di Milano dal titolo “Chi vince e chi perde: l’industria italiana oltre la crisi”.
Il rapporto, che nell’incontro del MIP è stato presentato da Roberto Monducci, Direttore del Dipartimento per i conti nazionali e le statistiche economiche di Istat e quindi commentato in una tavola rotonda da quattro docenti del Politecnico di Milano (vedi i riquadri in fondo all’articolo), è alla sua seconda edizione: per la prima volta l’Istituto Nazionale di Statistica mette a disposizione di tutti sul web una scheda per ogni settore con oltre 70 indicatori e grafici relativi a struttura, strategie e performance delle imprese del comparto.
«L’obiettivo è studiare le dinamiche competitive e le strategie adottate per affrontare la crisi nel triennio 2011-2013, caratterizzato da una forte e persistente caduta della domanda interna e da un rallentamento di quella estera nel 2013 – ha spiegato Monducci -. Le imprese più orientate all’export hanno potuto sfruttare la più vivace domanda internazionale, in un contesto ciclico comunque di forte difficoltà nei Paesi europei, che sono i principali mercati per il manifatturiero italiano». Il rapporto approfondisce in particolare tre temi: le tendenze dell’output industriale italiano nel contesto europeo; gli effetti della crisi del 2011-2013 sui singoli settori e imprese; e le strategie di risposta alla recessione nella visione delle stesse imprese italiane.
Tra domanda interna ed export il divario è enorme
Riguardo al primo aspetto, l’attuale fase recessiva in Italia si sta rivelando particolarmente lunga e intensa, anche se in attenuazione negli ultimi mesi del 2013. A differenza delle precedenti, la crisi ha avuto un andamento a “W” con due cadute, nel 2008-09 e nel 2011-13, e un calo complessivo dell’output industriale più pronunciato rispetto a molti altri Paesi UE. La Germania infatti ha recuperato quasi pienamente i livelli produttivi pre-crisi (ma è l’unico Paese ad averlo fatto), mentre Italia e Spagna hanno perso rispettivamente quasi un quarto e un terzo del prodotto industriale, e Francia e Regno Unito mostrano andamenti intermedi.
La crisi del 2011-2013 in particolare mostra in Italia un’impressionante divaricazione tra il fatturato industriale nazionale e quello all’estero: «Il primo è crollato di circa il 17%, scendendo anche sotto il minimo della prima recessione, mentre quello estero ha fatto segnare una lieve crescita (circa il 3%), con un divario che è cresciuto di un punto al mese – osserva Monducci -. La Spagna è l’unico grande Paese ad aver mostrato un andamento del genere, che per entrambi i Paesi si riconduce alla debolezza della domanda interna e riguarda in particolare i beni intermedi e di consumo, mentre le vendite dei beni d’investimento mostrano dinamiche più omogenee con le altre grandi economie europee».
L’alimentare traina il Made in Italy
Passando agli effetti della crisi sui singoli settori e imprese, tra gennaio-ottobre 2010 e lo stesso periodo del 2013, il 51% delle imprese industriali ha aumentato il fatturato totale, ma solo il 39% è cresciuto sul mercato interno, mentre ben il 61% lo ha fatto sul mercato estero. Nel dettaglio, emergono come vincenti alcuni tra i settori tipici del “made in Italy”: innanzitutto l’industria alimentare, e poi articoli in pelle, bevande, produzione di macchinari e infrastrutture. Tra i peggiori ci sono abbigliamento, industrie del legno, e soprattutto produzione di mobili.
Tra 2010 e 2013 solo quattro comparti hanno visto calare il fatturato estero (produzione di mobili, legno, stampa e abbigliamento), mentre solo l’industria alimentare è riuscita a crescere in Italia. Un’ulteriore conferma, quindi, della “forbice” tra il mercato domestico e quelli esteri, che ha ovviamente aumentato la propensione all’export. L’Istat ha diviso le imprese industriali oltre 20 addetti in quattro classi (fatturato all’estero sotto il 25% del totale, 25-50% del totale, 50-75%, e oltre il 75%), concludendo che nel periodo il 21% delle aziende è “salito” di classe, e solo il 5% è sceso.
Quindi le ha classificate rispetto alle crescite o ai cali in Italia e all’estero. Le imprese “vincenti” (aumento del fatturato sia interno sia estero) risultano 4.600 (18,1% del totale), quelle “crescenti all’estero” (aumento del fatturato estero e calo di quello interno) sono 8.500 (33%), quelle “crescenti in Italia” (aumento del fatturato interno e calo di quello estero) sono 3.400 (13,3%), e quelle “in ripiegamento” (calo del fatturato interno ed estero) risultano 9.100 (35,6% del totale).
«Abbiamo valutato caratteristiche strutturali, risultati economici, leve competitive (innovazione, investimenti in formazione, intensità delle relazioni con altre imprese), e orientamenti strategici (ampliamento della gamma prodotti, espansione su nuovi mercati, ridimensionamento, delocalizzazione), ricavando che a livello di singola impresa la probabilità di entrare nel gruppo delle “vincenti” aumenta al crescere dell’intensità delle relazioni con altre imprese o istituzioni, dell’attività innovativa, e dell’investimento in formazione».
In ottica di settori invece le strategie che aumentano le probabilità di buone performance sono l’investimento in capitale umano, l’alto grado di connettività produttiva e l’innovazione di prodotto e processo, fattore quest’ultimo fortemente abilitante per l’espansione all’estero, «insieme alla delocalizzazione “costruttiva”, cioè usata come driver per attivare l’export, e non come modo di “scappare” dall’Italia».
Le aziende ottimiste sulla tenuta alla crisi
Infine l’Istat nel dicembre 2013 ha chiesto direttamente a un campione rappresentativo di imprese manifatturiere le strategie attuate per affrontare la crisi del 2011-2013. Le risposte, sottolinea Monducci, indicano un’alta capacità di tenuta alla recessione, e il sostanziale mantenimento della configurazione produttiva, con diminuzione netta dell’occupazione complessiva, che però ha riguardato soprattutto la forza lavoro meno qualificata.
Tra le politiche interne alle aziende prevalgono riduzione dei costi di produzione, miglioramento qualitativo e ampliamento della gamma prodotti, e contenimento di prezzi e margini. Tra le strategie “esterne” si è puntato soprattutto su rafforzamento delle politiche di commercializzazione, ricerca di relazioni produttive con altre imprese, insourcing e concentrazione dell’attività nei segmenti di mercato più redditizi o dinamici.
I settori più interessati a ridurre i costi sono stati autoveicoli e coke e raffinazione, mentre alla differenziazione dei prodotti hanno ricorso per lo più le imprese dell’elettronica, e alla riduzione di prezzi e margini i settori più esposti sul mercato interno, quali stampa e metallurgia. Le strategie esterne sono state soprattutto di rafforzamento delle pratiche di commercializzazione, specie nei comparti bevande, elettronica-elettromedicale, metallurgia e macchinari, e di attivazione di nuove relazioni (joint venture, consorzi, ecc.) da parte di settori quali raffinazione e autoveicoli.
In sintesi quindi, conclude Monducci, si può concludere che da una parte effetti settoriali significativi, e spesso dominanti, interagiscono con dinamiche individuali fortemente eterogenee, ma associate a profili strategici definiti, «e dall’altra le relazioni con altre imprese, l’innovazione, l’investimento nelle persone e l’ampliamento della gamma prodotti sono le leve competitive determinanti per la tenuta e l’espansione delle vendite interne e/o estere».