Quattro articoli, che danno un’idea della complessità e delle contraddizioni del momento, in testa alla home page di The Wall Street Journal nella mia lettura mattutina – in confinamento domestico – di un giorno come un altro: sabato 18 aprile.
L’articolo di fondo, in alto a sinistra: “The Stock Market Is Ignoring the Economy: The Dow [Jones Industrial Average] enjoyed its best two-week stretch in more than 80 years, but the economy is still struggling”. Da un lato abbiamo il superamento di quota 22 milioni del numero di richiedenti l’indennità di disoccupazione negli Stati Uniti, dall’altro le Borse (Nyse e Nasdaq) che sembrano al momento aver archiviato le loro paure sull’effetto Coronavirus e sono in pieno recupero: lo S&P 500 (il notissimo indice dell’andamento borsistico delle principali imprese statunitensi ) – seppur ancora sotto al massimo storico di metà febbraio – ha recuperato quasi il 30% rispetto al minimo del 23 marzo ed è circa ritornato al livello di un anno fa, livello addirittura superato dell’oltre 8% dall’indice del Nasdaq, roccaforte delle tech company. La domanda che sorge spontanea: questo impressionante recupero è un segno di preveggenza delle Borse, che scommettono su un riavvio rapido e consistente dell’economia, o un effetto perverso della liquidità enorme immessa nell’economia dalla Federal Reserve e dai 2 trilioni di misure di sostegno di Trump?
Il secondo articolo, in evidenza al centro: “Coronavirus Forces Tech Startup Founders to Grow Up Fast: The drive to go-big-or-go-home [blitzscaling] has been replaced by a desperate effort to conserve cash just to survive”. Coronavirus cambia radicalmente il comportamento del mercato finanziario (ma i primi segni si stavano già presentando), che continua (come visto) ad aver fiducia nelle imprese più consolidate – ancor più se ricche di cash come le big tech – o nelle imprese giovani quali Zoom, che hanno già dato dimostrazione delle loro capacità di successo e sono uscite dall’area di perdita, si rifiuta viceversa, con conseguenze potenzialmente letali anche per molti unicorni, di continuare a iniettare risorse fresche in imprese che, spinte dal venture capital stesso a privilegiare la crescita veloce rispetto alla prudenza finanziaria, erano abituate prima di Coronavirus a operare in costante perdita “bruciando cash”. Ne sta facendo le spese il Vision Fund di SoftBank, il più ricco fondo di venture capital della storia con una dotazione di 100 miliardi di $, che a causa del cattivo andamento di alcune delle startup finanziate (clamoroso il flop del mancato IPO di WeWork che era valutata 47 miliardi) è stato recentemente costretto ad effettuare un writedown di 16,7 miliardi. Estremo il caso di Airbnb – viceversa in attivo prima della pandemia e prossima a uno degli IPO più attesi del 2020 (con una valutazione implicita di 35 miliardi di $ nell’ultimo round di finanziamenti privati e di 40 nei successivi scambi sul mercato secondario) – che, travolta dalla crisi del turismo e dei viaggi d’affari, ha dovuto accedere a iniezioni di danaro estremamente costose, con una discesa a 18 miliardi della sua valutazione implicita.
È interessante notare come la corsa alla liquidità – riducendo costi correnti e investimenti, ricontrattando i termini di pagamento a monte e a valle, abbassando o annullando riducendo dividendi e buyback, vendendo asset, sfruttando i fidi concessi con una certa larghezza dalle banche prima della pandemia, emettendo corporate bond – sia comune alla quasi totalità delle imprese, per ragioni anche molto diverse: per prudenza ad esempio nel caso di Airbus, che ha accumulato 32 miliardi di € di riserve per fronteggiare il calo generalizzato e/o il posticipo degli ordini di nuovi aerei da parte di compagnie in larga misura sull’orlo del fallimento; per necessità nel caso di Ford, che a seguito della perdita annunciata di 2 miliardi (sui 34 fatturati) e del crollo delle vendite di auto, è stata costretta a emettere corporate bond per 8 miliardi a un tasso del 10% circa; per sfruttare al massimo le occasioni di acquisizioni che si potranno prospettare con l’avanzare della crisi nel caso di Warren Buffett, che aveva già oltre 120 miliardi di $ – in cassa nella sua Berkshire H. – non utilizzati per i valori ritenuti troppo alti delle potenziali prede.
Il terzo articolo, appena sotto: “Procter & Gamble Posts Biggest U.S. Sales Gain in Decades: Shoppers rushing to stock up on medicine and cleaning supplies drove increase; sales rose 10% in U.S., offsetting declines in China”.
La corsa alle scorte domestiche – non di cash in questo caso ma di beni per la sopravvivenza – avvantaggia non solo imprese retail come Amazon e Walmart, ma anche grandi imprese manifatturiere consumer come appunto Procter&Gamble (le cui origini risalgono addirittura all’epoca della guerra di secessione statunitense) e Nestlé (prima impresa europea per market cap). Amazon capitalizza 1.180 miliardi di $, +27,4% rispetto a un anno fa e +9,4% rispetto ai massimi delle Borse di due mesi fa; Walmart è entrata nel top-10 mondiali, superando Visa e JPMorgan Chase, con una market cap di 374,2 miliardi di $ e una crescita – allineata con quella di Amazon – del +28,1% e + 10,5% rispettivamente; Nestlé e Procter&Gamble valgono ambedue oltre 300 miliardi di $, -327,9 e 326,4 rispettivamente, in crescita rispetto a un anno fa e poco meno rispetto ai massimi di due mesi fa.
Il quarto articolo, un po’ più sotto: “Amazon Gets Go Ahead for U.K. Food-Delivery Investment, Thanks to Coronavirus: Competition authority says some customers would be cut off from online food delivery or face higher prices if Deliveroo had to exit the market”. Un articolo interessante per il cambiamento di scenario che evidenzia non solo nei riguardi di Amazon, ma delle big tech in generale, diventate bersaglio delle authority e della politica in Europa prima e negli Stati Uniti più recentemente. Prima di Coronavirus, la probabilità che Amazon fosse autorizzata a entrare nell’azionariato di Deliveroo era considerata minima; ora l’approvazione, anche se con qualche riserva (forse per salvare la faccia). Il perché è facile da capire: sono cambiate le priorità, le preoccupazioni antitrust stanno svanendo a fronte dei rischi di fallimenti e di perdita di posti di lavoro.
È possibile, almeno sino a che la crisi perdurerà, che si vada nella direzione di una concentrazione più elevata, invece che verso il frazionamento in più pezzi – particolarmente auspicato dalla sinistra democratica statunitense – dei grandi gruppi. E comunque nel frattempo un altro fenomeno, meno visibile e meno attaccabile dalle authority, è scattato: l’esodo di molte delle menti più brillanti e innovative dalle tech startup, soprattutto da quelle a maggior rischio di sopravvivenza, alle big tech, favorito dagli incentivi posti in atto – in gara fra loro – dalle big tech stesse.