“Ci concentriamo sulla sostenibilità non perché siamo ecologisti, ma perché siamo capitalisti e siamo legati da un rapporto fiduciario verso i nostri clienti.” È uno dei passaggi chiave della lettera annuale ai Ceo di Larry Fink, numero uno di Blackrock, la più grande società di investimento al mondo, che gestisce un capitale pari a oltre 10.000 miliardi di dollari, 6 volte il PIL italiano. Il testo rappresenta una bussola per tutti i business manager perchè indica le priorità e i temi più rilevanti per il sistema finanziario globale, e viene sempre osservato con attenzione. Significativo che la sostenibilità delle imprese sia il tema centrale di quest’anno, a conferma che la trasformazione in chiave ESG è diventata urgente e ineluttabile. Ne abbiamo parlato con Sergio Fumagalli, Senior Partner, ESG advisory services leader di P4I – Partners4Innovation.
Who's Who
Sergio Fumagalli
Senior Partner P4I, ESG advisory services leader, Membro del Comitato scientifico di Clusit
Qual è il messaggio principale che emerge dalla lettera del Ceo di BlackRock quest’anno?
Che la sostenibilità del nostro sistema economico e sociale è una questione che riguarda tutti, e non è figlia di un presupposto ideologico. Non penso che Larry Fink sia un guru e la sua fede cieca nella capacità del capitalismo di autorigenerarsi può essere condivisa o meno, ma senza dubbio i punti che porta all’attenzione, in questa come nelle lettere degli anni precedenti, sono pietre in cui, se si continua a guardare da un’altra parte, prima o poi si finirà per inciampare.
Who's Who
Larry Fink
Ceo di Blackrock
Non è così scontato che le aziende credano all’importanza della sostenibilità ambientale e sociale, ovvero alla fine dell’era dello sviluppo a risorse infinite. Viviamo in un’epoca di fake news: basta ricordare che il 30% degli americani è convinto che Biden abbia rubato illegalmente la Presidenza a Trump, e che sul Covid vengono accreditate le tesi più incredibili.
In entrambi i casi la scienza si è pronunciata in modo molto chiaro e ci sono evidenze innegabili. Eppure, sappiamo che ci sono spinte importanti e con grande seguito, persone influenti che negano l’evidenza scientifica, interessi pesanti in gioco. Non per niente, pochi anni fa, quando i termini del tema ambientale erano già ben chiari, Trump fece uscire gli USA dagli accordi di Parigi sottoscritti da Obama.
Se è vero che le risorse non si possono più considerare infinite, se, conseguentemente, si decide di giocare il futuro della propria azienda sulle opzioni sostenute dai fatti e dalla scienza, allora bisogna produrre fatti concreti: il greenwashing diventa una forma di autolesionismo irrazionale. L’obiettivo non può essere solo “apparire green” ma avviare la propria azienda verso una transizione concreta, per operare con successo nel nuovo paradigma.
Come possono le imprese avviare questa trasformazione?
Una trasformazione seria richiede tempo, non avviene in un giorno, è una decisione strategica. Larry Fink lo dice con chiarezza: “Ogni impresa e ogni settore usciranno trasformati dalla transizione verso un mondo a zero emissioni. La domanda ora è: voi sarete tra coloro che guideranno il cambiamento o tra chi sará guidato?”
Nel breve si può – e si deve – fare molto: ottimizzare, contenere, migliorare. Ma cambiamenti e innovazioni profonde richiedono una maturazione culturale, organizzativa, relazionale che non è realistico pensare di realizzare se non in un orizzonte di medio periodo.
Se mai si parte, però, mai si arriva. Ed è essenziale partire con il piede giusto, avendo chiaro l’obiettivo di fondo, senza cercare scorciatoie che sono solo sprechi.
La rendicontazione è importante, che sia il bilancio di sostenibilità, la DNF o quello che ci porterà la prossima direttiva UE in materia, ma non è il cuore dell’impegno. Il bilancio arriva dopo, a cose fatte: registra ciò che si è fatto. La sostenibilità è innanzitutto una strategia e le risorse disponibili vanno impegnate tenendone conto. È la sua messa a terra che diventa, anno dopo anno, bilancio. Misurare è essenziale, naturalmente, come noto solo ciò che si misura può essere migliorato, ma l’obiettivo è la sostenibilità dell’impresa nel tempo e nel nuovo contesto.
Che ruolo hanno l’innovazione digitale e le tante start up che stanno nascendo?
Anche di questo parla la lettera: “Le prossime 1.000 imprese “unicorno” non saranno motori di ricerca o social media, bensì innovatori sostenibili e scalabili; startup che aiutano il mondo a decarbonizzarsi e rendono la transizione energetica accessibile a tutti i consumatori.” Questa previsione, se dovesse realizzarsi, segnerebbe un cambio epocale: veniamo da un periodo storico che visto la nascita di Google, Facebook, Amazon e gli equivalenti cinesi, la rigenerazione di Apple e di Microsoft e così via, e ne è stato caratterizzato in profondità, cambiando la vita e le abitudini di tutti noi. Larry Fink ci vuole dire che il digitale ha fatto il suo tempo? Certamente no. Il digitale è forse il principale abilitatore della sostenibilità e della transizione verde. Se alla trasformazione digitale venisse data una caratterizzazione, una finalità a supporto della sostenibilità, gli obiettivi della trasformazione conseguente sarebbero ancora più dirompenti.
D’altra parte, non solo il PNRR ma tutta la strategia della EU si fonda su questi due pilastri – digitale e sostenibilità – ed è lecito attendersi che tutte le politiche pubbliche si muoveranno con coerenza in questa direzione: da quelle di incentivazione alle politiche fiscali, dalla ricerca alla regolamentazione del credito e degli investimenti finanziari.
La sfida italiana non è solo riuscire a farsi assegnare effettivamente tutti i soldi previsti dai piani europei, ma trasferire il messaggio all’enorme platea di PMI e anche di aziende medio grandi tirate a lucido sull’efficienza operativa, che non dispongono al loro interno di risorse culturali e organizzative sufficienti e adeguate (per ruolo, competenza, remunerazione) a gestire la trasformazione e a cogliere le opportunità connesse.
Siamo nel pieno delle “grandi dimissioni” e della trasformazione del lavoro. Quanto conta la strategia della sostenibilità per attirare e trattenere le persone?
La pandemia ha messo in crisi la relazione tra datori di lavoro e dipendenti, negli Stati Uniti e nel Regno Unito il tasso di licenziamento è ai massimi storici. È tema chiave, anche questo affrontato nella lettera. Scrive Fink: “La nostra ricerca mostra che le società che hanno instaurato legami solidi con i loro dipendenti hanno registrato livelli più bassi di turnover e rendimenti più alti nel corso della pandemia”.
La “S” di ESG (Social) include temi legati, ad esempio, al rispetto dei diritti dei lavoratori lungo tutta la catena di fornitura, al rapporto con le comunità a cui l’azienda sente di appartenere, la parità di genere, lo sviluppo demografico o il territorio. Sempre di più le aziende dovranno porre questi aspetti al cuore delle strategie. Fink scrive, infatti, che “Oltre a sovvertire il rapporto con il luogo fisico in cui lavoriamo, la pandemia ha anche fatto luce su questioni come l’uguaglianza etnica, l’assistenza all’infanzia e la salute mentale, rivelando il divario tra le aspettative generazionali sul lavoro.”
Il sovvertimento del rapporto con il luogo fisico in cui lavoriamo, inoltre, consente di avere uno sguardo più ampio, maggiore flessibilità nella costruzione delle risposte. Ad esempio, a certe condizioni, consente di accedere a una platea di talenti più ampia, così come consente di trasferire i benefici derivanti da una occupazione di qualità verso contesti territoriali altrimenti esclusi da cui non è più necessario emigrare, limitando le spinte allo spopolamento delle aree rurali.
È un quadro grande in cui ciascuna azienda deve ritagliare il proprio percorso, per cogliere le opportunità e ridurre i rischi, sapendo che a tendere queste variabili potrebbero cambiare le dinamiche complessive e il mercato del lavoro di conseguenza.
Anche qui, è urgente porsi il problema e partire: le soluzioni devono essere costruite, contesto per contesto, settore per settore, azienda per azienda. Se ne può derivare una “colpa” non è per le eventuali risposte sbagliate ma per l’immobilismo, per la cecità. E non sarebbe una colpa morale ma una responsabilità di business, un costo, una cattiva gestione.
Quale può essere il supporto offerto dalle società di consulenza come P4I?
Il compito del consulente è guidare le aziende, piccole e grandi, a concentrare le energie disponibili su strategie che possano aumentarne il valore nel tempo, mentre perseguono – e grazie al fatto di perseguire – gli obiettivi di sostenibilità, affrontando innanzitutto temi di materialità finanziaria e rinunciando, se necessario, all’estetica, al racconto enfatico, all’immagine che può essere parte di una strategia ma non la strategia.