Editoriale

Italia, nessun rilancio “sostenibile” senza una profonda ristrutturazione

Pubblicato il 15 Ott 2012

Turnaround

Quando un’impresa è in profonda crisi, è indispensabile – per non correre rapidamente verso il fallimento – arrestarne l’emorragia finanziaria. Ma quasi mai basta. Se non si eliminano le spese “non apportatrici di valore”, se non si rimuovono le sorgenti di inefficienza e gli ostacoli all’attività, se non si valorizzano i potenziali punti di forza e non si irrobustisce la capacità di competere sul mercato, l’equilibrio finanziario è destinato a durare poco.

Serve quello che in gergo è chiamato un turnaround: una profonda ristrutturazione dell’impresa, che – modificando radicalmente il suo conto economico – cambi la direzione dei flussi finanziari. Un’operazione tutt’altro che facile: perché va a impattare sugli equilibri di potere all’interno dell’impresa e incontra conseguentemente resistenze fortissime; perché richiede, soprattutto all’inizio, di privilegiare – tra gli interventi – quelli che assorbono poca cassa o hanno payback molto veloci; perché il tempo diventa una variabile molto critica e i ritardi nell’agire possono avere conseguenze rovinose.

Ho fatto questa lunga premessa, da manuale di strategia, per parlare della crisi dell’”impresa Italia” e dell’assoluta necessità di un turnaround, che ci impedisca di ripercorrere la spirale negativa che diversi altri paesi europei hanno già sperimentato.

Per parlare delle grandi difficoltà che il governo “tecnico” sembra incontrare, deludendo (almeno finora) le molte aspettative createsi con il suo insediamento, nel far procedere il turnaround in parallelo con il riequilibrio finanziario: difficoltà legate alle enormi resistenze che si frappongono ai cambiamenti, ma (talora) anche alle esitazioni nel proporli e nel perseguirli.

Più specificamente, mi sembra che si sia fatto molto poco in tema di semplificazione delle regole e di ristrutturazione della pubblica amministrazione, i due grandi pilastri del turnaround del Paese. Le regole del gioco rimangono spesso ambigue e gli iter autorizzativi così spezzettati da moltiplicare le occasioni di corruzione.

La pubblica amministrazione, seppure con casi virtuosi al suo interno, è nel complesso inefficiente e spesso costringe le imprese a dotarsi di strutture (costose) ad hoc solo per interagire con essa. Le grandi potenzialità delle tecnologie digitali sono sfruttate solo in misura ridotta, a macchia di leopardo, con il duplice effetto di mantenere nell’inefficienza le strutture che non si adeguano (molte ad esempio nell’ambito delle ASL e dei tribunali) e di perdere i vantaggi che una forte interconnessione fra le diverse strutture della PA potrebbe offrire: obbligando ad esempio le imprese o i cittadini a procurarsi certificazioni inutili, che sarebbero facilmente acquisibili attraverso il colloquio diretto fra banche dati; spingendo ad esempio una amministrazione come quella fiscale ad azioni percepite come vessatorie, spesso per procurarsi dati già esistenti presso altre amministrazioni.

Non è ovviamente solo lo Stato, nelle sue molteplici articolazioni, che deve muoversi. Ma un turnaround nella PA potrebbe avere un forte impatto nella direzione del rilancio della nostra economia: non solo per i rilevantissimi risparmi – potenzialmente superiori (secondo le valutatazioni della nostra Scuola) ai 20 miliardi all’anno – che esso potrebbe indurre (semplificando loro la vita) nei conti delle imprese, ma anche per dimostrare che il Paese è ancora vitale e invertire quel diffuso clima di sfiducia che porta alla stagnazione e al declino.

Il recente decreto Crescita 2.0 sembra muoversi nella direzione giusta, ma occorrerà una grande determinazione non solo e non tanto per farlo diventare legge, ma soprattutto per renderlo concretamente operativo.

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