«Abbiamo voluto chiamare questo evento “Impresa 4.0”, invece di usare la più nota espressione Industry 4.0 perché la cultura del digitale deve diventare patrimonio comune di tutte le imprese e amministrazioni pubbliche italiane: la presenza del neopresidente di Confindustria Vincenzo Boccia oggi testimonia che le imprese italiane vogliono cambiare passo».
Così Agostino Santoni, Presidente di Assinform, ha introdotto ieri l’evento intitolato appunto “Impresa 4.0. Per un’industria italiana più competitiva nell’era digitale”, organizzato dalla stessa Assinform con Confindustria Digitale, in cui è stato presentato lo studio “Il digitale in Italia nel 2016”.
Un’analisi che dice che dal 2015 gli investimenti in tecnologie digitali in Italia hanno ripreso a crescere, e continueranno a farlo almeno per i prossimi 3 anni. Responso incoraggiante, ha detto Santoni, ma che è da considerarsi solo come inizio di un percorso, con un passo oltretutto ancora troppo lento, disomogeneo e insufficiente per dare la spinta decisiva alla competitività delle imprese e del Paese.
«Gli investimenti nelle tecnologie abilitanti della trasformazione digitale, e cioè Cloud, Internet of Things, piattaforme per la gestione web, Big Data, Mobile, sicurezza, evidenziano che è in atto un robusto fenomeno di infrastrutturazione innovativa, che però riguarda ancora una parte troppo limitata del Paese. Le piccole e medie imprese, cioè il 99% del nostro tessuto produttivo, e gran parte della PA, rimangono ai margini di questo fenomeno».
Boccia: i fattori di produzione sono diventati 4, ci sono anche conoscenza e informazione
Si diceva della presenza di Vincenzo Boccia – peraltro forse la prima di un presidente di Confindustria a un evento dedicato all’informatica e al digitale – ma anche il suo intervento
è stato coerente con quello di Santoni. «Oggi i fattori di produzione non sono più solo i classici capitale e lavoro, se ne sono aggiunti altri due che sono conoscenza e informazione – ha detto Boccia -. È iniziata la stagione di consapevolezza dell’industria, abbiamo chiari i driver di sviluppo e uno di questi è il digitale: il digitale deve diventare parte della cultura delle nostre associazioni territoriali, che devono trasformarsi da trincee in avanguardie. Questa quarta rivoluzione industriale vogliamo cavalcarla da protagonisti».
Giacomelli: è compito dello Stato intervenire dove non arriva il mercato
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Antonello Giacomelli, Sottosegretario allo Sviluppo Economico: «Un punto di partenza fondamentale è stato il piano per l’Italia Digitale, per colmare il gap di connettività con gli altri Paesi avanzati: è stato il primo piano nazionale, il Cipe ha stanziato 5 miliardi di euro, di cui 2,2 miliardi per portare la rete nelle zone “a fallimento di mercato”, dove ci sono 7300 comuni italiani (su circa 8000 in totale: per avere un’idea, il 70% delle imprese della Lombardia è in zone a fallimento di mercato, ndr): compito dello Stato è intervenire dove non arriva il mercato. Ma ora, dopo la connettività, che è una splendida autostrada, dobbiamo metterci sopra dei servizi, e questa è una partita completamente nuova, che richiede una rivoluzione culturale».
Scendendo nel dettaglio dell’analisi “Il digitale in Italia nel 2016” realizzato da Assinform e Confindustria Digitale in collaborazione con NetConsulting cube e gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, nel 2015 il mercato digitale nel suo complesso è cresciuto dell’1% a 64,9 miliardi di euro. Al recupero hanno concorso tutti i comparti – tranne i servizi di rete delle telecomunicazioni (-2,4%,) che contano per quasi un terzo del mercato -: i Servizi ICT sono cresciuti dell’1,5% a 10,4 miliardi, Software e Soluzioni ICT del 4,7% a 5,97 miliardi, l’hardware (Dispositivi e Sistemi) dello 0,6% a 17 miliardi, e la parte Contenuti Digitali e Digital Advertising ha sfiorato i 9 miliardi crescendo dell’8,6%.
I segnali più positivi però sono qualitativi, perché la spinta maggiore viene dalle componenti più innovative e abilitanti alla trasformazione digitale, che nel 2016 cresceranno quasi tutte a doppia cifra: Internet of things 14,9%, Cloud 23,2%, Big Data 24,7%, piattaforme per il web 13,3%; mobile business 12,3%, sicurezza 4,4%. Quanto ai settori d’utenza, banche, assicurazioni, utility, sanità e trasporti vantano tutti incrementi del 3% o più per il 2016, mentre dal punto di vista dimensionale è come sempre molto forte il divario tra le grandi imprese (+2,8%) e le piccole (+0,6%).
«Le tecnologie abilitanti, come mobile, sicurezza, iot, social media, cloud, big data, non sono fenomeni appena nati, ma devono ancora realizzare tutto il loro potenziale – ha detto Alessandro Perego, Direttore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano -. Per esempio i big data analytics sono da tre anni indicati dai CIO come massima priorità degli investimenti digitali ma il grado d’adozione reale resta molto basso, con progetti limitati solo ai dati transazionali; solo il 10% delle transazioni tra le aziende è definibile come eCommerce B2B, cioè digitalizzato in qualche forma; quanto al Mobile, abbiamo milioni di lavoratori che usano queste tecnologie, con benefici di produttività che stimiamo in 10 miliardi di euro, ma non basta dare i device, occorre una strategia Mobile complessiva che gestisca app, sicurezza e così via; il Cloud, ormai è chiaro, è una grande opportunità soprattutto per le PMI, che però hanno il più basso tasso d’adozione, 20% contro il 50% delle grandi imprese, anche se va detto che si sta ampliando continuamente l’ambito d’uso dove il cloud è già adottato».
Conservatorismo, PMI, competenze, startup: i 4 punti su cui agire
Lo scenario di questo report, ha aggiunto Giancarlo Capitani, Presidente di NetConsulting cube, vede le imprese muoversi più rapidamente verso il digitale, ma a macchia di leopardo in termini di settori, dimensioni, regioni. «Occorre agire per vincere il conservatorismo dovuto non solo a limiti di budget – oltretutto queste tecnologie finanziariamente sono sempre più accessibili – ma soprattutto a mancanza di cultura manageriale e imprenditoriale; per colmare il ritardo digitale delle PMI, l’80% delle quali secondo l’Istat non sta investendo nel digitale, con un giusto mix di incentivi e obblighi di legge, come quello della fatturazione elettronica verso la PA; per superare il duplice gap sulle competenze digitali, sia in termini di contenuti e nuove professioni sia in termini di numero, visto che nel 2020 mancheranno 750mila specialisti; e per far crescere le startup innovative, che stanno aumentando molto in numero ma devono essere aiutate nel salto dimensionale, attraverso incentivi, agevolazioni e crescita del venture capital».
«La via italiana all’industria 4.0 dev’essere un rilancio attraverso il digitale non solo della manifattura, che deve passare dall’attuale 15% di contributo al PIL ad almeno il 20%, ma anche delle filiere, dei distretti, delle PA locali, trascinando così alla crescita l’intero Paese. Ecco il senso del grande progetto di politica industriale condiviso con tutto il sistema confindustriale che siamo impegnati a lanciare in questi giorni – ha detto Elio Catania, presidente di Confindustria Digitale -. Al centro ci sono le PMI: metteremo gli imprenditori nelle condizioni di trovare tecnologie, competenze e risorse negli Hub d’innovazione che stiamo progettando sul territorio. Questo aiuterà anche a riportare in Italia produzioni delocalizzate». Il Governo, ha aggiunto Catania, deve creare le pre-condizioni necessarie: «Ha dimostrato grande sensibilità sui temi del digitale e di Industria 4.0, ci aspettiamo che riorienti gli incentivi dove realmente servono: rafforzamento della tecno-Sabatini, defiscalizzazione degli investimenti in innovazione, voucher alle PMI per progetti innovativi e formazione digitale».