Umberto Bertelè, professore emerito al Politecnico di Milano, è autore di “Strategia”, edizioni Egea, disponibile in questi giorni nella seconda edizione, focalizzata sulla trasformazione digitale. A questo link è disponibile un e-book in pdf, realizzato in occasione dell’uscita del nuovo libro, che raccoglie le riflessioni pubblicate nell’arco di quasi 7 anni su Digital4Executive.
Marc Benioff, CEO di Salesforce, ha parlato di rifugiati digitali, creati da un ritmo di sviluppo dell’AI-Artificial Intelligence molto al di là delle aspettative.
Satya Nadella, CEO di Microsoft, ha sottolineato come tale ritmo tenda a mettere in crisi non solo i lavoratori low-skilled, ma sempre più anche i colletti bianchi.
Meg Whitman, CEO di HP ed ex-aspirante al ruolo di Governatore della California, ha fatto un’affermazione simile, parlando del grande aiuto che l’innovazione tecnologica può dare – in tema di cambio del clima, salute e agricoltura – ma anche dei suoi effetti dirompenti sull’occupazione “regardless of the age and class of workers” e della necessità che il mondo delle imprese (insieme con quello accademico) si faccia carico del problema.
Ginni Rometty, CEO di Ibm, più ottimistica sul tema dell’occupazione ma fortemente preoccupata dal rischio che la tecnologia provochi profonde disuguaglianze e porti alla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ha parlato della necessità di definire nuovi principi e fissare norme etiche per l’AI. Un tema quest’ultimo affrontato anche da Satya Nadella, che si è posto il problema della destinazione del surplus creato dai breakthroughs in AI, ovvero dei cosiddetti dividendi dell’innovazione digitale: da non lasciare nelle mani di pochi, ma da impiegare a favore di una crescita inclusiva.
Una serie di riflessioni, a Davos 2017, simili a quelle che sarebbero potute emergere da un discorso di Papa Francesco o dal congresso di un sindacato di sinistra, ma fatte dai capi di imprese – tra le più innovative e a maggiore capitalizzazione del mondo – con una spiccata tendenza a rompere le regole e con comportamenti che spesso rasentano i confini del lecito. Una conversione al sociale? Poco probabile. Piuttosto, come sostiene il Financial Times, il timore di essere qualificati – come avvenne per i banchieri con la grande crisi – come coloro che pur di prosperare non si curano assolutamente dei danni che possono arrecare agli altri.
È una preoccupazione giustificata? Sicuramente sì, se si guarda ai terremoti politici che la combinazione fra globalizzazione e digitalizzazione sta provocando.
È solo la caduta di immagine che preoccupa? Sicuramente no. La carne al fuoco è molta. Ci sono in ballo le accuse, a Apple ma non solo, di usare tutti i mezzi per sfuggire alle tasse. Ci sono le accuse, in primo luogo a Google, di ricorrere a pratiche monopolistiche e quelle, indirizzate anche a Facebook, di violare estesamente la privacy. Ci sono le accuse, a imprese quali Uber e Airbnb, di violare le leggi locali per rubare mercato ai tassisti piuttosto che agli albergatori. C’è il problema, sul tavolo di Trump, di una revisione del regime fiscale per far rientrare le enormi riserve detenute dalle maggiori società tecnologiche statunitensi all’estero.
È giusto ritenere colpevoli le imprese per gli effetti della digital disruption sull’occupazione e sulla distribuzione del reddito? Mi sembra sia in atto una sorta di caccia agli untori, che si cerchino responsabili per un fenomeno che si è ripetuto più volte nella storia: l’emergere di innovazioni che, per la loro rilevanza e trasversalità, hanno un impatto radicale sul modo di vivere. Per un fenomeno molto positivo in prospettiva (come lo sono stati la nascita dei trasporti ferroviari o delle reti elettriche), ma nel breve-medio termine squilibrante, che richiede una trasformazione nell’organizzazione della società: con misure non facili però da individuare e da attuare, per la molteplicità degli attori coinvolti e per la difficoltà di valutazione della portata del fenomeno stesso. Difficoltà in larga misura legata alle incertezze sui tempi con cui le tecnologie già esistenti (che il McKinsey Global Institute ritiene in grado di cancellare la metà dei posti di lavoro statunitensi) si tradurranno in applicazioni concrete e sui ritmi di evoluzione – storicamente irregolari – dell’intelligenza artificiale.