Umberto Bertelè: Vale 535 milioni di dollari, il 68 per cento in più di un anno prima, la sua ultima creatura: la Intercept Pharmaceuticals filiata da Genextra e quotata al Nasdaq pochi mesi fa. Com’è nata l’idea di creare un’impresa che si occupasse di ricerca, in uno stadio di avanzamento delle conoscenze che sembrava ancora molto lontano da qualsiasi applicazione?
Francesco Micheli: Genextra è una società di ricerca tutta a capitale privato che opera in un settore dove di solito c’è lo Stato. Umberto Veronesi alla fine del ’99 mi parlò delle prospettive di sviluppo della genomica, quando stavo fondando Fastweb, e mi parve un’opportunità estremamente affascinante lanciare una nuova start up. Il Prof. Pier Giuseppe Pelicci, responsabile del suo istituto di ricerca, aveva appena realizzato un esperimento sensazionale, pubblicato su Nature, che dimostrava come un ratto cui era stato tolto il gene P66, l’unico negativo responsabile dell’impazzimento delle cellule che prelude alla fine della vita, sopravvivesse molto più a lungo, oltre il 25% della norma, ma soprattutto in ottima salute. Creai questa nuova start up, Genextra, alla fine del 2003, partendo da questa ricerca che appassiona alcune delle più importanti società biotecnologiche nel mondo, finalizzata a individuare una molecola che potesse interdire l’azione di questo gene nefasto che ovviamente non può essere tolto a un bambino. Ma in parallelo Genextra mise subito in linea altre ricerche nel settore dell’aging, meno ambiziose, con tempi di ricerca più brevi e quindi prospettive economiche più realizzabili. Aderirono subito alla società alcuni imprenditori tra cui Diego Della Valle, Luca Di Montezemolo, Marco Tronchetti Provera, Massimo Mondardini; e anche Banca Popolare di Milano e soprattutto Banca Intesa, allora guidata da Corrado Passera; insieme a uno dei miei figli, Carlo, un ingegnere elettronico col quale già avevo lavorato ai tempi di Fastweb, creammo un piccolo team di grandi specialisti. Identificammo poi un amministratore delegato, il dottor Lorenzo Tallarigo, un medico italiano che aveva fatto una grande carriera in una big pharma americana e che, avendo giudicato il nostro progetto molto attraente, decise di rientrare in Italia e svilupparlo. E abbiamo anche acquisito la maggioranza di una società che opera nel campo delle nanotecnologie, Tethis, spin-off dell’Università Statale di Milano. Lo scorso ottobre abbiamo quotato al Nasdaq il 23% di Intercept, la controllata americana con attività di ricerca in Italia, limitando l’offerta però ai soli investitori istituzionali: è stato un successo, la migliore performance del settore degli ultimi anni. La partecipazione si è diluita al 42% con una plusvalenza implicita attuale pari al doppio di quanto è stato investito in Genextra in otto anni. Il settore dell’aging è destinato a una sempre più forte crescita tenuto conto dell’allungamento della vita e dell’esigenza di assicurarne una buona qualità. L’umanità ha impiegato duemila anni per passare da un’età media di 25 anni ai 40 di fine ‘800, per poi raddoppiare agli oltre 80 di oggi in soli 100 anni, grazie allo straordinario sviluppo della scienza. L’obiettivo ora è di arricchire la “banca” della vita: se si vive più a lungo, si deve anche vivere meglio.
Il richiamo a Fastweb ci ricorda che Francesco Micheli non è al suo primo IPO. Nel marzo 2000 quotò – insieme con Scaglia – e.Biscom (divenuta poi Fastweb). Lo fece con grande tempismo, e forse anche con un po’ di fortuna, appena prima che la “bolla Internet” scoppiasse: con una valorizzazione che rimane fra le più rilevanti della storia della Borsa italiana. E Genextra, d’altra parte, non è l’unica avventura innovativa che – come famiglia – state seguendo in questo momento. In che comparti operano le altre start up?
Attualmente la nostra holding partecipa e sostiene una quindicina di iniziative a forte contenuto innovativo, da Bravofly, che è diventata in breve tempo uno dei principali operatori online nel settore del turismo, a Citynews, tra i primi 5 editori online italiani, a Banzai, protagonista nel mondo internet con numerosi marchi, a Musixmatch che offre, con una piattaforma molto efficace, uno dei maggiori cataloghi mondiali di testi di canzoni, legalmente con contratti di licenza.
La creazione di nuove imprese, innovative anche quando non tecnologiche, rappresenta in questo momento una necessità per il nostro paese: per dare lavoro alle nuove generazioni, e non obbligarle a emigrare; per rimpiazzare le imprese ormai al termine del loro ciclo di vita, falcidiate dalla crisi. Non sembra esistere in Italia una capacità adeguata – da parte del sistema bancario-finanziario – di provvedere a questo bisogno. È una preoccupazione giusta?
Viviamo un cambiamento epocale in ogni settore: politico, economico e finanziario. Per Fastweb ottenni, all’inizio, 800 miliardi di lire di finanziamento da Interbanca solo sulla base di un’idea, di un progetto: era solo 13 anni fa, oggi sarebbe impensabile. Tra l’altro “istruimmo” anche due analisti di quella banca, che diventarono i primi in Italia ad avere competenze tecniche per modelli avanzati nel campo delle telecomunicazioni: quando si parla di forte innovazione le banche non sempre possono essere attrezzate per valutarne i progetti.
Ma il vero dramma di questo momento è che non ci sono soldi disponibili per finanziare nuove imprese. Le banche una volta facevano le banche, seguendo e conoscendo bene i clienti. Oggi guadagnano di più nel vendere prodotti che non conoscono: una delle principali cause della grande crisi che ancora viviamo è stata proprio la diffusione esplosiva di titoli tossici. Solo i computer “capiscono” la complessità di questi prodotti finanziari che essi stessi creano. È uno scenario molto negativo per lo sviluppo imprenditoriale. Ragazzi di talento in Italia ce ne sono, ma hanno difficoltà insuperabili nel trovare i fondi. Il sistema bancario preferisce depositare i propri mezzi alla BCE, ed è anche comprensibile.
Per di più dal punto di vista della gestione bancaria, in un’epoca di tassi molto bassi resta poco margine per mantenere sistemi di filiali molto capillari e assai costosi ove, per giunta, si è sempre più allargata la distanza tra il vertice degli istituti e la periferia a discapito del mantenimento di un forte spirito d’impresa e, in pratica, della capacità di seguire con attenzione e da vicino la propria clientela. Se si aggiunge a questo la persistenza di “porte” molto strette per i giovani e il conseguente invecchiamento del management al potere ci si rende conto delle difficoltà a sostenere il sistema produttivo italiano più vivace, quello della piccola/media impresa.
Oltretutto si vive in un Paese che, a livello macro, ha affrontato e peggiorato la crisi con una ossessiva pressione fiscale, al contrario di altri, come gli Stati Uniti, che hanno invece subito allargato la base monetaria per ridare vigore all’economia.
Il giudizio sul nostro sistema bancario-finanziario mi sembra molto severo, ma credo sia importante ricordare che chi lo formula divenne noto al largo pubblico – nel 1985 – come “rottamatore” di un capitalismo italiano molto lontano dalle “regole del gioco” dei paesi più evoluti. Lo fece abbattendo – con una scalata allora innovativa per il nostro paese – uno dei templi di questo capitalismo, la Bi-Invest della famiglia Bonomi. So che il giudizio di Francesco Micheli è altrettanto severo nei confronti dell’intera classe dirigente italiana. È vero?
Sì, credo che il grande problema di oggi sia proprio la forte crisi della classe dirigente, che non è stata in grado di rinnovarsi e adeguarsi. Vivere da giovani in un mondo così spinge ad andare fuori dal paese: a inizio ‘900 era più facile di adesso salire la scala sociale, vi erano più opportunità per tutti. Se è così a Milano, figuriamoci al sud. Si parla spesso di classe politica inadeguata, ma la realtà è che questa si può cambiare con un blitz: pensiamo a quanti spostamenti repentini abbiamo visto negli ultimi tempi. Per il ricambio della classe dirigente invece ci vuole tempo, così come ce ne vuole per portare l’università italiana al livello delle prime al mondo che corrono più veloci.
Si è perso lo spirito d’impresa, quel sacro fuoco che il capo riusciva a trasmettere anche all’ultimo dipendente. Un capo distratto e depresso per la crisi, che magari si vanta di non usare un computer, semina vento.
Possiamo chiudere con qualche proposta costruttiva, con qualche parola di maggiore speranza sul nostro futuro?
Io sono sempre stato un grande ottimista e assieme ai miei continuiamo a fare tante cose, ma oggi è diventato difficilissimo. Il contesto gioca contro: troppa burocrazia, troppe regole sciocche che annullano l’efficacia di quelle serie e indispensabili. La competitività in dieci anni è scesa pesantemente con un costo del lavoro cresciuto del 40% rispetto al 5,3% della Germania e al 30% della Spagna. La produttività è calata del 2,8%, con una disoccupazione del 12% e per i giovani del 38,9%. Il sistema bancario dovrebbe affrontare aumenti di capitale per 18 miliardi, stando alle aspettative europee. Il Pil peggiora di nuovo e mi aspetto che a fine anno sarà attorno al -3%, ovviamente il record negativo nel G7.
Tra IVA , Tarsu, Imu e altri balzelli siamo a un total tax rate del 68,3% che destiniamo al nostro azionista di maggioranza che è lo Stato. Che peraltro dovrebbe essere il nostro servitore: lo strapaghiamo ma ci rende servizi sempre più modesti; è come se pagassimo 5 domestici per avere il servizio di uno. Anzi ci sottopone alle vessazioni della sua costosissima burocrazia. E non stupisce che la gente non ne possa più e vada a votare chi grida più forte.
La lentezza della giustizia, i tempi e la pluralità di agenzie e tribunali di diverso livello allontanano gli investitori stranieri. Ai tempi della caduta dell’impero Romano, Goti, Visigoti, Franchi e Cimbri volevano venire da noi ed essere assimilati: oggi non arriva nessuno – forse se mi passa la battuta – temono i “timbri”: il costo della burocrazia è quasi del 5% del PIL. Ormai siamo un Paese di transito e molti giovani, e non solo, se ne vogliono andare. Che il nostro mercato di Borsa sia calato del 5,7% dall’inizio dell’anno, peggio della Spagna, rispetto alla crescita del 10% di New York e del 2,4% della Germania non deve stupire. Solo le imprese proiettate sull’estero sono in grado di crescere, anche in maniera sensibile. Le altre pagano tutte il prezzo di aver troppo aumentato la capacità produttiva nel periodo pre-crisi: i capannoni industriali sono oggi la vera sofferenza immobiliare delle banche.
Cosa si può fare? Servono decisioni radicali, non sciocchezze come il limitare a pochi euro i contanti in tasca, quando si sa bene che la grande evasione fiscale usa ben altri canali. Si deve avere finalmente il coraggio politico di ridurre gli sprechi, disciplina nella quale deteniamo medaglie olimpiche: l’obbiettivo è un centinaio di miliardi all’anno e, se si vuole, si può affrontare.
All’estero abbiamo ancora un’immagine paese molto positiva. Malgrado tutto continuiamo a essere “simpatici” e interessanti per molte nostre caratteristiche positive piuttosto uniche che ci contraddistinguono e per un insieme di fattori: paesaggio, clima, natura, cibo, patrimonio artistico, musica, scienza e, diciamo pure, grande “solarità”. Investiamo su questi valori invece di relegarli all’ultimo posto nella scala delle priorità del Governo e di conseguenza nella allocazione delle risorse disponibili: oggi destiniamo una quota percentuale del PIL molto inferiore all’1% a ricerca e beni culturali, siamo fanalino di coda rispetto agli altri che dedicano finanziamenti due o tre volte maggiori in termini percentuali ma con valori assoluti ben più elevati perché rapportati a G.N.P. di ben altra dimensione rispetto al nostro. Purtroppo, non abbiamo infrastrutture valide per sfruttare il patrimonio che deteniamo. Faccio un esempio: a Londra si è appena chiusa una magnifica mostra su Pompei con un successo di pubblico unico. Ma se un turista poi viene a Pompei trova la casbah ma non un albergo degno, e deve tornare a Napoli per dormire. Perfino ad Angkor, in Cambogia, dopo Pol Pot hanno immediatamente costruito una serie di alberghi validi ed efficienti.
I nostri musei, salvo eccezioni, sono vuoti: sono rimaste troppe istituzioni polverose, devono essere reinventati, serve una trasformazione come quella che fu fatta qualche anno fa alle Poste Italiane. Analoga la situazione dei nostri teatri lirici, in forte crisi, più che per i tagli a causa di gestioni inaccettabili: un teatro come la Scala costa a tutti noi 130 milioni di euro all’anno e la difficoltà non sta nei ricavi che sono esuberanti ma nei costi.
Il Ministero della Cultura dovrebbe avere la stessa dignità di quello dell’Economia, invece è sempre considerato l’ultima ruota del carro. La gestione dei beni culturali è medievale, con una burocrazia molto potente e altrettanto strabica, specie quando deve decidere chi finanziare. Anche se è esagerato dire che abbiamo il patrimonio artistico più grande del mondo, abbiamo comunque valori enormi e soprattutto un valore di posizione unico. Come diceva Flaiano, “basta con le politiche di inaugurazioni, pensiamo a quelle di manutenzione”.
*****DA SAPERE*****
Chi è Francesco Micheli
Nella sua carriera di finanziere e imprenditore Francesco Micheli, dopo un’intensa attività nel settore del merchant banking e dell’asset management (lanciando diverse start up di successo), è stato tra i primi in Italia a individuare nell’alta tecnologia e nelle telecomunicazioni un settore dalle forti e strategiche possibilità di sviluppo creando nel 2001 Fastweb: così come oggi sta facendo nel campo delle biotecnologie e delle nanotecnologie attraverso Genextra – di cui è Presidente – la prima start up italiana a capitale interamente privato creata assieme a un team di scienziati presieduto dal Professor Umberto Veronesi. In parallelo a liceo classico e laurea in scienze politiche ha effettuato studi musicali: pianoforte e composizione. Fa parte del Consiglio di Amministrazione di diverse società tra cui Hines Italia Sgr, Longanesi, Artemide, Ospedale San Raffaele, Futurimpresa Sgr (Presidente), InBetween Sgr (Presidente) e di diverse Entità culturali o filantropiche tra cui Orchestra Filarmonica della Scala, Milano Musica, Fondazione Amici della Scala, Fondazione Teatro Parenti, Vidas, Fondazione per le Neuroscienze (Presidente), Fondazione Basso, Reset, Fondazione Mazzotta, fondazione CEN – Centro Europeo di Nanomedicina, O.C.I. Orchestra da Camera Italiana di Salvatore Accardo e Aspen Institute. Attraverso la Fondazione (che porta il nome del padre musicista e docente al Conservatorio di Milano per oltre 30 anni) ha lanciato il Concorso Pianistico Internazionale Umberto Micheli assieme a Maurizio Pollini e Enzo Restagno, già presieduto da Luciano Berio. È Presidente dell’Associazione per il Festival Internazionale della Musica di Milano che realizza il Festival “MITO TorinoMilano SettembreMusica”.
*****DA SAPERE*****
Alcune delle start up innovative finanziate da Micheli Associati
Micheli Associati è la holding della famiglia Micheli che si occupa di investimenti con particolare enfasi su società dal contenuto innovativo. Fra la quindicina di partecipate della Micheli Associati, oltre alla già citata Genextra, ricordiamo:
-Musixmatch: partendo dal dato di fatto che i testi delle canzoni sono fra gli argomenti costantemente più cercati in rete, la società ha sviluppato una piattaforma molto avanzata che mette a disposizione degli utenti su ogni tipo di device uno dei più grandi cataloghi al mondo di testi di canzoni. Il tutto in maniera assolutamente legale essendo i contenuti forniti in licenza dai maggiori Music Publisher.
-Gruppo Bravofly Rumbo: è uno dei principali operatori online nel settore del turismo e del tempo libero in Europa. In costante crescita dal 2004, anno della sua fondazione, il gruppo è oggi leader di mercato in Spagna e Italia, con una forte espansione in Francia e una solida presenza in più di 30 Paesi, dalla Russia al Sud America. Attualmente oltre 19 milioni di utenti al mese si affidano ai suoi siti: Bravofly. com, disponibile in 15 lingue, Volagratis.com, Rumbo. es, Viajar.com, Viaggiagratis.com, Viaggiare.it, Hotelyo.it, 2spaghi.it, Crocierissime.it, Bravocroisieres.fr, Vivigratis.it e Prezzibenzina.it. Citynews: l’azienda ha sviluppato una piattaforma di informazione locale su Internet ed è presente in 37 tra le principali città italiane. Il network di Citynews registra 16 milioni di visite e 50 milioni di pagine viste al mese, conta oltre 315 mila iscritti, produce più di 700 news al giorno ed è ormai stabilmente nella Top 5 degli editori online a livello nazionale (dati Audiweb).
–Citynews: l’azienda ha sviluppato una piattaforma di informazione locale su Internet ed è presente in 37 tra le principali città italiane. Il network di Citynews registra 16 milioni di visite e 50 milioni di pagine viste al mese, conta oltre 315 mila iscritti, produce più di 700 news al giorno ed è ormai stabilmente nella Top 5 degli editori online a livello nazionale (dati Audiweb). Citynews rappresenta, inoltre, il più interessante esempio di citizen journalism in Italia; oltre il 15% delle notizie nascono dalle segnalazioni degli utenti o vengono arricchite grazie ai loro contributi.
–Banzai: società italiana protagonista del mercato Internet e focalizzata sui settori media ed e-commerce. Fondata nel 2008 da Paolo Ainio, uno dei pionieri di Internet in Italia, conta su oltre 370 collaboratori, con un fatturato complessivo di oltre 130 milioni nel 2012, 15 milioni di utenti internet mensili e oltre 8 milioni di utenti registrati ai propri siti. Fra i marchi di Banzai ricordiamo, nel mondo e-commerce, ePrice e SaldiPrivati e, nel mondo media, Liquida, PianetaDonna, GialloZafferano e Studenti.it.