È dell’inizio di maggio la curiosa notizia, riportata dai giornali di tutto il mondo, della proclamazione di uno sciopero di massa (il primo in trent’anni) dei dipendenti dei casino di Las Vegas, volto a bloccare l’assunzione di baristi robot, in grado di sostituire perfettamente – almeno nella qualità dei cocktail – i baristi in carne e ossa.
Uno sciopero di stampo tipicamente luddista, che rievoca – in un contesto radicalmente diverso (nei casino invece che nelle fabbriche) e a due secoli di distanza – le violente proteste operaie in Inghilterra contro l’introduzione degli allora innovativi telai meccanici. Diversa come motivazione, non la riduzione dei costi in questo caso, ma la crescente difficoltà di reperire personale in un Paese prossimo alla piena occupazione, la decisione a fine giugno di una catena di fast food statunitense di ricorrere a cuochi robot, perfettamente in grado di preparare gli hamburger e di tener pulito l’angolo cucina. Simile la motivazione, la necessità di liberare personale per altre mansioni contenendo i costi, della decisione di Walmart (oltre 2 milioni di addetti), annunciata ai primi di luglio, di introdurre shelf-scanning robot nei suoi punti vendita per individuare e segnalare le necessità di riapprovvigionamento degli scaffali.
I robot, quasi esclusivamente visti finora nell’immaginario collettivo come sostituti degli operai nelle catene di montaggio, escono cioè sempre più dalle fabbriche per svolgere mansioni fisiche anche nei servizi. Solo mansioni fisiche? Non sono robot anche i cosiddetti roboadvisor, in crescente diffusione, che sostituiscono i consulenti finanziari nel dare consigli ai clienti minori dei grandi fondi su dove dirigere i propri limitati investimenti? Non sono robot anche i chatbot, che sempre più vengono utilizzati nei call center per rispondere alle domande (a quelle almeno non troppo complesse) dei clienti? La risposta è sì o no, a seconda della definizione di robot che vogliamo utilizzare.
Nella loro versione originale i robot (da robota, “lavoro duro”), apparsi per la prima volta nel 1920 in un romanzo dello scrittore ceco Karel Čapek, erano umanoidi e come sono stati successivamente vissuti nella fantasia delle persone. Ma solo nella fantasia. Nella realtà i robot sono macchine (reali o virtuali) che, con gli umani, condividono un certo grado di intelligenza (ovviamente artificiale) e – anche se non sempre – alcune funzionalità fisiche. Più c’è fisicità più tendiamo a parlare di robot in senso stretto. L’uso del termine roboadvisor può sembrarci una forzatura, perché fa riferimento a un mero pacchetto software, ancorchè intelligente. I chatbot sono in una situazione intermedia, perché – pur non essendo dotati di movimenti – condividono con gli umani l’udito e la capacità di parola.
I robot distruggono il lavoro?
Il punto importante, al di là di classificazioni che possono apparire accademiche, è che i robot appaiono destinati a crescere nei servizi e non solo nel manufacturing: contribuendo in molti casi, anche se come visto non sempre, alla tanto temuta distruzione di posti di lavoro.
Perché tanto timore se si riesce, lavorando meno, a produrre di più e spesso meglio? Perché la caduta nella disponibilità di posti di lavoro, soprattutto se si verifica in tempi così rapidi da non poter fruire di un ribilanciamento naturale, obbliga la società a ripensare radicalmente la propria organizzazione – in termini di divisione del lavoro e distribuzione del reddito – per non incorrere in tensioni politiche anche molto elevate e non penalizzare l’economia riducendo il numero di consumatori dotati di potere di acquisto. Con un corollario importante: la perdita di posti di lavoro ha un impatto pesante soprattutto nei territori che subiscono passivamente le innovazioni, mentre può addirittura cambiare di segno in quelli che – promuovendole – aprono nuovi fronti di attività spesso assai redditizi.