«Dal 2008 gli USA hanno vissuto una recessione, l’Europa due, l’industria italiana ne ha subite 3, perdendo un quarto della capacità produttiva. L’unico modo per uscire da questa situazione è agire decisamente su 4 leve: formazione, imprenditorialità, internazionalizzazione, innovazione». Questa la tesi con cui Fabio Sdogati, docente di Economia Internazionale al Politecnico di Milano, ha introdotto il convegno dedicato dall’ateneo milanese al rapporto Mediobanca-Unioncamere 2016 sulle medie imprese manifatturiere.
«La spesa per investimenti in Italia è scesa del 20% dal 2010, è la peggiore performance tra i grandi paesi europei», ha detto Sdogati citando dati Eurostat. «Non meravigliamoci quindi se l’industria italiana è la peggiore anche sulla produttività del lavoro: la produttività non è “buona volontà dei dipendenti”, ma è questione di investimenti, di strumenti dati alle persone per fare meglio il loro lavoro».
In questo scenario generale, ci sono settori che vanno meglio della media. Secondo Istat farmaceutica di base, mezzi di trasporto, meccanica e macchine utensili in termini di produzione manifatturiera sono sopra i livelli del 2010. Mentre vanno peggio chimica, tessile, derivati della gomma, lavorazione del legno.
Per uscire definitivamente dalla recessione, comunque, bisogna aumentare la produttività, ha detto Sdogati citando l’economista Paul Krugman: la capacità di un Paese di migliorare la qualità di vita dei suoi cittadini dipende quasi completamente dalla sua capacità di aumentare la quantità di output per lavoratore. «E per aumentare la produttività nell’industria italiana non ci sono alternative, bisogna agire sulle 4 leve che ho citato prima».
Prendiamo la formazione: dotare i giovani di competenze avanzate e valorizzarli significa formare una base di bravi manager e quadri per risollevare il Paese, ha detto Sdogati mostrando un grafico World Bank (riportato qui sopra) con un’impressionante correlazione tra PIL per persona e numero di anni di scolarizzazione. «Al momento le imprese italiane spendono in formazione un terzo di quelle belghe. Nei 28 Paesi UE solo la Romania è messa peggio dell’Italia come percentuale di dipendenti di imprese private con grado di istruzione terziario. Questo significa che non tratteniamo i migliori talenti, che all’estero i sono pagati molto più che qui».
Poi c’è l’internazionalizzazione. «L’industria italiana ha una grande tradizione di export, ma possiamo fare molto di più, c’è un mondo da industrializzare, da arredare, vestire, nutrire, e noi siamo capaci di fare queste cose. Le importazioni stanno crescendo in tutto il mondo, con tassi altissimi nelle regioni in via di sviluppo». Ma internazionalizzazione non è solo export, è anche offshoring. «La delocalizzazione non è “alto tradimento”, ma uno strumento per aumentare la competitività e confrontarsi col mondo, partecipando alle catene globali di produzione. C’è una chiara correlazione tra produttività e indice di offshoring. Il “made in” non esiste più, è solo una questione di marchi, i prodotti sono il risultato di supply chain estese in molti Paesi, a volte in tutto il mondo».
Terza leva l’imprenditorialità. «Questa è fondamentale per farsi strada con nuovi modelli di business e di produzione: anche in questo campo al momento nessuno in Europa è peggio dell’Italia come tasso di imprenditori nascenti in percentuale sulla popolazione tra 18 e 64 anni, ma possiamo imparare anche a diventare imprenditori».
Infine l’innovazione. Sdogati ha mostrato un grafico OECD con una netta correlazione tra produttività e volume di ricerca e sviluppo finanziata pubblicamente. «Le imprese non fanno innovazione, la adottano, quindi hanno bisogno che lo Stato faccia ricerca. C’è una corrente di pensiero che insiste molto sulla necessità di una ripresa della spesa pubblica, di politiche fiscali espansive e spese in infrastrutture: io credo che lo Stato debba spendere prima di tutto in ricerca e innovazione da mettere poi a disposizione delle imprese».