editoriale

Il made in Italy fra successi internazionali e crisi del Paese

Il manifatturiero italiano è a un bivio. Vi è un nucleo di imprese, che ha il mondo come mercato di riferimento, che sta mostrando una notevole capacità di riposizionamento nelle aree in maggiore crescita e che macina utili. E vi sono viceversa molte altre imprese, numericamente la maggioranza, che soffrono profondamente sotto il maglio della crisi.
L’editoriale di Umberto Bertelè

Pubblicato il 05 Apr 2013

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In questo periodo non felice per l’economia e la società italiana, l’industria manifatturiera – nostro caposaldo storico – sembra vivere due esistenze lontane fra loro. Semplificando al massimo, vi è un nucleo di imprese che ha il mondo come mercato di riferimento, che sta mostrando una notevole capacità di riposizionamento nelle aree in maggiore crescita e che macina utili: nucleo di cui fanno parte – anche se molto differenti per dimensioni, configurazioni giuridiche e comparti di attività – Gruppo Techint, Barilla e BravoSolution. E vi sono viceversa molte altre imprese, numericamente la maggioranza, che soffrono profondamente sotto il maglio della crisi: perché devono confrontarsi con una domanda interna e con un accesso al credito in continuo calo, perché sono vittime dirette o indirette dell’enorme debito commerciale – 91 miliardi di euro secondo Bankitalia – accumulato dalla PA e della crisi di liquidità che ne consegue, perché sono oggetto alla stregua dei privati di tasse patrimoniali indetraibili (quali l’IMU sui capannoni).

La classifica dei The World’s Billionaires, messa a punto recentemente da Forbes, può essere vista come una controprova dello stato di salute delle imprese del primo nucleo. Fra gli italiani inclusi nei top 1000, infatti, vi è una netta preponderanza (solo tre le eccezioni) di fondatori, proprietari e/o principali azionisti di imprese manifatturiere con vendite e presenza fisica su scala mondiale: Michele Ferrero è il ventitreesimo uomo più ricco del mondo, seguito da Leonardo Del Vecchio (fondatore e grande azionista di Luxottica) quarantanovesimo e da Miuccia Prada settantottesima; Giorgio Armani e la famiglia Rocca (Gruppo Techint) sono fra i primi duecento; la famiglia Perfetti e Renzo Rosso fra i primi cinquecento; la famiglia Benetton, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Mario Moretti Polegato (Geox), Sandro Veronesi (Calzedonia) e Diego Della Valle (Tod’s) fra i primi mille.

Ne è una controprova anche la dinamica dell’export – che guarda a quanto esce dal nostro territorio e non a quanto è venduto (ma anche prodotto) all’estero da imprese italiane – che mette in luce non solo la continua crescita dei volumi, ma anche la nostra capacità di dirottare rapidamente i flussi verso i mercati a  maggiore sviluppo.

È l’altro pezzo della nostra industria manufatturiera che soffre, con un numero crescente di imprese che abbandonano l’attività – volontariamente o a seguito di fallimenti – o presentano comunque gravi sofferenze nella situazione debitoria. Una parte degli abbandoni è fisiologica, e riguarda imprese incapaci di adeguarsi a un contesto competitivo strutturalmente modificatosi nel tempo. Ma l’altra parte no, e mi rattrista il fatto che sia lo stato – con il continuo rinvio dei pagamenti – una della macrocause di questo stato di cose, che potrebbe portare a fallimenti a catena e peggiorare lo stato di salute delle banche, con ulteriori tagli dei crediti alle imprese.

E mi rattristano ancor di più, se possibile, due altri aspetti messi in luce da questa vicenda: il senso di impotenza delle istituzioni, che traspare dalla sequenza di pseudo-misure succedutesi nel tempo per risolvere un problema in progressivo incancrenimento; il deficit informativo sulla finanza pubblica, che ha costretto recentemente Bankitalia a stimare prima il debito su base campionaria e a rivedere poco tempo la stima elevandola da 70 a 91 miliardi.

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