La dimensione problematica della rivoluzione digitale – il suo lato oscuro – è un tema oramai all’ordine del giorno e non può più essere ignorato. Non si tratta di costruire scenari apocalittici, ma neppure di eludere il problema: va dunque compreso in maniera non preconcetta ma all’interno delle più generali dinamiche dell’evoluzione tecnologica e quindi nella sua articolazione e complessità, innanzitutto per restituirne la ricchezza, l’applicabilità diffusa e anche la sua fascinosità, persino nelle dimensioni più criticabili.
Se la Rete non mantiene le promesse
Non basta infatti minimizzare o esorcizzare il lato oscuro per contrastare il crescente sospetto nei confronti delle Rete e delle sue potenti tecnologie e soprattutto il timore che le sue promesse – spesso enfatizzate e generalmente accettate acriticamente – non possano essere mantenute. Il tema non è recente ma – nell’ultimo periodo – la sua rilevanza è cresciuta in maniera inesorabile. Le inesattezze e falsificazioni di Wikipedia, il potere sotterraneo e avvolgente di Google, la fragilità psicologica indotta dagli universi digitali, il finto attivismo politico digitale svelato dall’espressione click-tivism, il diluvio incontenibile della posta elettronica, il pauroso conto energetico dei data center, i comportamenti “scorretti” dei nuovi capitani dell’impresa digitale sono solo alcuni dei problemi che stanno emergendo, con sempre maggiore intensità e frequenza.
Non parliamo di rigurgiti tecnofobici, ma di fatti concreti che incominciano a minacciare perfino la solidità delle aziende. Prendiamo ad esempio l’energia. Il New York Times ha recentemente denunciato che i datacenter hanno consumato nell’ultimo anno 30 miliardi di watt di elettricità a livello mondiale, quanto l’energia prodotta da 30 centrali nucleari. DatacenterDynamics stima inoltre che l’anno prossimo questo consumo crescerà del 20%. Questi numeri sono ancora più inquietanti se misuriamo la ridondanza e “sporcizia digitale” presente sulla Rete: secondo IDC, il 75% del mondo digitale è una copia mentre ICF International stima che – già nel 2009 – la “posta-pattumiera” rappresentava il 97% di tutte le mail in circolazione (62.000 miliardi di messaggi).
Oltre a creare problemi di per sé, queste criticità stanno inducendo tre nuovi comportamenti – sempre più diffusi – che, a mio modo di vedere, possono creare ancora più problemi: impoverimento informativo, alienazione informatica, e “pensiero unico” del digitale. Fenomeni subdoli, poco apparenti, ma in agguato e potenzialmente temibili. Il loro contrasto parte innanzitutto da un loro svelamento.
La posta in gioco è molto alta. Non solo per gli sprechi e i danni che un cattivo utilizzo di queste potenti tecnologie comporta. Una disillusione del digitale – e in generale dell’innovazione – causata da uno smascheramento non guidato e contestualizzato di molti suo errati utilizzi e false promesse – fenomeno in parte costitutivo e tipico, come ci ricorda la società Gartner Group, di ogni rivoluzione tecnologica – potrebbe essere drammatica, soprattutto di questi tempi. Rischierebbe infatti di interrompere quel flusso di innovazione e sperimentazione – necessario soprattutto in tempi di crisi e di discontinuità – che è sempre accompagnato da sogni, spericolatezze, errori e rischi. E ci sono già le prime avvisaglie di questo fenomeno: ad esempio l’articolo di fondo su The Economist del 12 gennaio titola evocativamente Innovation Pessimism.
Il guardare con sospetto questi atteggiamenti – estremi, scomodi ma sempre connaturati alla ricerca del nuovo – rischia di aprire nella ricerca e nell’innovazione legata al digitale una fase di conservazione, di sospettosità e di contabilizzazione ragionieristica della sperimentazione che può essere deleteria.
Serve una cultura del digitale
È dunque necessario comprendere davvero il fenomeno e non fermarsi alla superficie, spesso luccicante ma ingannevole. E poi va costruita una cultura del digitale, che apra a una maggiore comprensione, anche degli aspetti più scomodi e che, soprattutto, dia indicazioni su come maneggiare queste tecnologie, su cosa possiamo chiedergli e che cosa va invece assolutamente evitato.
Ciò che serve è dunque molto di più di una banale alfabetizzazione digitale, di un addestramento ai suoi strumenti o ai suo linguaggi sempre più criptici; ciò che serve è una vera e propria educazione che ci aiuti a cogliere le peculiarità di questo straordinario ecosistema reso possibile dal digitale, e a guidarne le logiche progettuali e i processi di adozione, tenendo a bada – nel contempo – le sue dimensioni problematiche.
Il ruolo dei Chief Information Officer
In questa riflessione appare evidente il ruolo fondamentale che dovrà avere il Chief Information Officer: indirizzare investimenti e progetti verso un “buon uso” del digitale, contenendo nel contempo il suo crescente lato oscuro. Quali possono essere dunque gli elementi cardine di una possibile “Agenda digitale aziendale” ?
Il nucleo della strategia può essere riassunto – nella sua essenzialità – in questa frase: ripartire dai problemi da risolvere o dalle concrete opportunità da cogliere e non (più) dal potere abilitante delle tecnologie (o meglio dalle loro promesse). Ciò richiede di rimettere al centro i processi operativi e i dati effettivamente utili: la tecnologia viene in un secondo momento, solo “su chiamata”. Le strategie technology-driven hanno oramai mostrato il fianco.
Questo approccio ha alcune specifiche implicazioni. Innanzitutto forza ad analizzare i processi e reingegnerizzarli prima di introdurre l’automazione. L’IT introduce sempre delle novità, che però possono diventare molto velocemente legacy, vincoli. Troppo spesso si sono automatizzate procedure inutili e – una volta automatizzate – diventano una barriera al cambiamento e cristallizzano lo status quo.
In secondo luogo pone il dato utile al centro della progettazione: Big Data non è necessariamente una buona notizia, anzi … Come ci ricorda il grande poeta Coleridge nella sua La ballata del vecchio marinaio: «Acqua, acqua dovunque e neppure una goccia da bere». In generale più dati dobbiamo gestire, più costi dobbiamo sostenere e più aumenta il rischio di perdere di vista i dati effettivamente utili, di non riconoscerli. Il valore di un dato deve nascere dalla conoscenza approfondita dei processi operativi o dei comportamenti dei clienti e non può essere solo svelato da algoritmi neurali quasi magici; il data mining a oggi ha trovato poche pepite e questo problema si acuirà con il crescere dei “dati spazzatura”.
Infine va affrontato lo scabroso tema del diluvio della posta elettronica e delle riunioni inutili, lunghissime e inefficaci, vera a propria “peste del XXI secolo”. In particolare queste ultime sono letteralmente esplose grazie alla facilità con cui si possono organizzare in remoto. Il tema non è naturalmente limitarsi a ridurre forzosamente questi eventi o cambiare strumento, ma analizzare in profondità questi processi e i comportamenti sottesi per comprendere perché queste criticità si manifestano con tale frequenza.
Bisogna dunque incominciare a misurare in maniera oggettiva l’impatto economico del “lato oscuro”, facendo emergere anche i costi nascosti, spesso non conteggiati. Non solo gli elevati costi infrastrutturali, gli sprechi (acquisto di software inutili o sostanzialmente inefficaci, device obsoleti troppo rapidamente), la perdita di efficienza, ma anche gli elevati consumi energetici, l’impatto ambientale non trascurabile, la perdita di efficacia (e di concentrazione) e la progressiva incapacità di pensare out-of-the-box.
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Andrea Granelli è autore del libro “Il lato oscuro del digitale. Breviario per (soprav)vivere nell’era della Rete” – edito da Franco Angeli