Umberto Bertelè, che presiede l’Advisory Board di ICT4Executive, è ordinario di Strategia e sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano e presidente onorario del MIP. È autore del libro “Strategia” edito da Egea Clicca qui per scaricare il pdf
La capitalizzazione implicita di ben 231 miliardi di dollari attribuita dal mercato ad Alibaba (la regina dell’e-commerce cinese), alla chiusura il 19 settembre del primo giorno di quotazione, dà un’idea del favore che tuttora circonda il mondo Internet e quello ICT più in generale. E questo nonostante il clima generale – un misto di invidia e rancore – verso i fondatori e i manager delle imprese top – che serpeggia da qualche tempo nella politica e nelle corti di giustizia, di cui ho parlato in un recente articolo.
È un favore non uniforme, ma che – in un contesto che continua a essere estremamente dinamico e turbolento – privilegia le imprese con prospettive (o talora semplicemente speranze) di crescita e tutte quelle che, per il loro buon andamento o comunque per la capacità di ristrutturarsi se colpite dalla saturazione della domanda e/o dall’entrata in gioco di nuove tecnologie e nuovi (aggressivi) competitori, si mostrano in grado di premiare i loro azionisti con buyback ed erogazioni straordinarie di dividendi.
È la prima società al mondo per capitalizzazione Apple (oltre 600 miliardi di dollari), forte da un lato della sua capacità di generare quasi 40 miliardi di utili netti all’anno – con una strategia da manuale di sfruttamento del brand (anche con l’immissione di top manager provenienti dal mondo della moda) e di conquista di tutti gli spazi di mercato possibili (molto importante l’espansione in Cina) – e generosa dall’altro a differenza del passato con i suoi azionisti, che sta concludendo la distribuzione di ben 100 miliardi di dollari fra buyback e dividendi.
Anche i buyback di Ibm sono rilevanti – 68 miliardi di dollari negli ultimi 4 anni e mezzo – ma la società per poterli fare deve giocare soprattutto sul taglio dei costi: perché i ricavi, a causa del passaggio di molti clienti ai meno remunerativi servizi cloud e della domanda inferiore alle attese ad esempio nei big data, sono soggetti da nove trimestri a una lenta ma continua erosione. Da 11 trimestri sono in discesa i ricavi di HP, colpita su diversi fronti del suo portafoglio composito, ma il titolo è riuscito a crescere in un anno del 75 per cento a fronte di una ristrutturazione profonda che ha comportato il taglio di quasi 50 mila dipendenti.
La carta dei costi, accompagnata però da un aumento dei ricavi, è stata giocata anche da Microsoft con l’annuncio del taglio di 18 mila dipendenti (per la maggior parte ex-Nokia) sui 127 mila totali, nel quadro di un impegno più complessivo da parte del suo nuovo CEO – in risposta all’apprezzamento espressogli dal mercato al momento della nomina con un forte aumento del valore del titolo – di procedere a una profonda rifocalizzazione del portafoglio di business per fare di Microsoft stessa una “mobile-first, cloud-first” company.
Facebook ha invece superato la soglia dei 200 miliardi di capitalizzazione, con un aumento del valore del titolo del 70 per cento in un anno, convincendo il mercato della sua capacità di crescere – nei ricavi e nei profitti – sfruttando il numero elevatissimo di utenti attivi e di saper gestire la transizione al mobile. La felice gestione del passaggio al mobile, particolarmente critico per un sito di search, ha premiato anche Google, che ha superato quota 400 miliardi. Il livello elevato dei multipli P/E per ambedue le società (che non distribuiscono dividendi e non effettuano buyback) – 30 per Google e più di 80 per Facebook a fronte di 16 per Apple e 17 per Microsoft – è d’altra parte rivelatore della fiducia (almeno al momento) loro accordata: nonostante qualche perplessità sull’eterogeneità rispetto al core business di talune acquisizioni di startup o sul prezzo elevato pagato per esse.
I prezzi crescenti delle startup, sia quelli espliciti delle acquisizioni che quelli impliciti nelle operazioni di (ri) finanziamento da parte dei fondi di venture capital, sono visti peraltro da più parti come preoccupanti segni premonitori del possibile scoppio di una nuova bolla dopo quella celebre di inizio secolo.
Uno sguardo al passato: profondi cambiamenti in pochi anni
Se invece che soffermarsi sulla situazione attuale, e sui cambiamenti avvenuti nell’ultimo anno, si guarda un po’ più indietro – al 2007 – si scopre che nel giro di soli sette anni sono profondamenti mutati i rapporti di forza fra le imprese operanti nel mondo Internet e nell’ICT in generale. La grande crisi dell’economia iniziata nel 2008, e ancora in atto in varie parti del mondo, ha giocato sicuramente un ruolo. Ma per comprendere quanto accaduto è più importante ricordare che è proprio nel 2007 – con l’introduzione dell’iPhone – che l’accesso a Internet in mobilità (dagli smartphone e poi anche dai tablet invece che dai PC) ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio: creando grandi vincitori e grandi vittime, con tutte le gradazioni intermedie.
I grandi vincitori (limitandoci alle imprese di valore superiore ai 100 miliardi) sono: Apple, che ha moltiplicato la sua capitalizzazione quasi per otto nonostante i 100 miliardi erogati agli azionisti; Google, che l’ha quadruplicata; Alibaba e Facebook, che nel 2007 non erano nemmeno quotate; Amazon e Tencent.
Le grandi perdenti, vittime del crollo dei cellulari a favore degli smartphone, sono come noto Nokia (che controllava il 40 per cento del mercato mondiale), Motorola e BlackBerry. Anche la crisi dei PC ha provocato danni: consistenti ai due leader mondiali HP e Dell, ora in faticosa ripresa; minori a Microsoft e Intel, che – pur soffrendo la perdita di una posizione quasi monopolistica – hanno saputo intraprendere strategie diverse e cambiamenti nella loro cultura di impresa. Molto differenziato l’andamento dei grandi operatori telecom: con Verizon che ha raddoppiato il suo valore, mentre AT&T, Telefonica e (purtroppo ancor più) Telecom Italia lo hanno visto scendere.
Il passaggio al mobile ha cambiato profondamente il modo di fare pubblicità (con un ruolo di protagonisti di Google e Facebook), riducendo le quote destinate agli operatori televisivi e provocando una crisi drammatica della carta stampata. E ha dato la stura alla nascita di una molteplicità di startup, diverse delle quali (da WhatsApp a Uber e Airbnb) responsabili dei fenomeni di disruption in atto nei settori più diversi dell’economia.
Ma nel giro di soli sette anni anche il ciclo di vita dei nuovi device appare avviato alla saturazione, dopo l’impressionante fase di espansione, obbligando le imprese a ripensare le loro strategie. Da manuale (come detto) a tale proposito le mosse del leader Apple, che – a fronte delle prospettive di saturazione, della quasi banalizzazione dei prodotti e della connessa entrata in campo di una marea di nuovi competitori – ha scelto di rafforzare ulteriormente la sua immagine di luxury company e di usare la forza del suo brand per cercare di far decollare due business dove i first mover avevano avuto un successo limitato: il business delle cosiddette wearable technology (con il lancio dell’Apple watch), percepite sinora come gadget a dispetto delle fortissime attese sul loro futuro; il business dei pagamenti via smartphone, coinvolgendo partner riottosi nel mondo delle banche e delle carte di credito (che temono una disruption dei margini) e in quello del retail (che non vede significativi vantaggi nell’investire in terminali).
Se il mercato consumer è cambiato così profondamente a causa del mobile, il mercato corporate attraversa anch’esso una fase di cambiamento per la crescente diffusione del cloud computing, accompagnata da un drastico abbassamento del prezzo dei server. Si apre la strada per l’ingresso di nuovi attori – con una offerta fortemente variegata di servizi cloud – accanto a quelli più tradizionali come Ibm, HP, Cisco, Oracle, Sap e la stessa Microsoft.
È un mercato che si va affollando, nella previsione che la transizione al cloud, in forma integrale o ibrida (mantenendo cioè all’interno alcune operazioni ritenute più critiche), prenda sempre più piede; nella previsione che si vada verso un tipico modello di sharing economy, in cui le imprese utilizzatrici non debbano più (nel caso integrale) investire nell’acquisto di hardware e software, ma possano fruire in outsourcing dei servizi alternativi con un pagamento “a consumo”; che si vada verso una radicale riorganizzazione dell’IT nelle imprese utilizzatrici stesse, con una profonda revisione del tradizionale ruolo del CIO.
Gli incumbent del settore sono costretti (come visto nel caso di Ibm) a offrire ai loro clienti, per non perderli, l’alternativa cloud ai prodotti legacy, con un doppio problema: il calo dei ricavi, almeno nel breve termine, perché all’acquisto e ai fee per la manutenzione si sostituisce il pagamento “a consumo” del servizio; la minor garanzia della fedeltà dei clienti, che una volta intrapresa questa strada possono avere una maggiore propensione a rivolgersi a fornitori alternativi per servizi specifici (ad esempio, parlando di un caso di grande successo, a Salesforce.com per il CRM). È probabilmente Microsoft nell’ambito degli incumbent l’impresa che più si sta impegnando per cavalcare il fenomeno cloud, avendo come grandi avversari – in una furiosa guerra dei prezzi per la conquista della leadership – Amazon (che del cloud è stata antesignana) e Google (stimolata dalla disponibilità di un’enorme infrastruttura cloud interna finalizzata al servizio di search). Ma anche Ibm e Cisco si muovono con decisione nella stessa direzione, affiancati (tra gli altri) da un leader del comparto telecom come Verizon (Telecom Italia segue una strada simile), da società più giovani come (in campi diversi) VMware e Salesforce.com e da startup aggressive operanti in prevalenza con una logica di nicchia.
Una situazione quindi in grande evoluzione, ma che per il momento (come detto) non ha provocato significative cadute di valore dei maggiori protagonisti, anche per le capacità di ristrutturarsi messe in mostra da alcuni di essi. Una situazione però che ben difficilmente non attiverà fenomeni di disruption nel futuro, con la perdita di peso di alcuni protagonisti e l’entrata in gioco di nuovi: le forti spinte presenti sul mercato verso M&A volti al consolidamento o verso break-up volti a una maggiore focalizzazione possono essere visti come segnali in tale direzione.
Qualche numero
Nonostante le incertezze sul loro futuro, a causa del contesto estremamente dinamico in cui operano, il mercato finanziario – anche se con qualche selettività – continua come detto ad avere un forte amore per le imprese ICT. Appartengono al mondo dell’information technology ben tre delle prime quattro imprese ai vertici mondiali per capitalizzazione di borsa (TAB. 1): Apple, Google e Microsoft. Tre imprese diverse per età e per data di raggiungimento del successo, con prodotti core differenti ma anche con crescenti sovrapposizioni nei loro portafogli di business e conseguentemente in aspra competizione fra loro. Tre imprese con numeri impressionanti dei ricavi e dei profitti pro-capite dei loro occupati diretti.
Molto nutrito è anche il novero delle imprese ICT che le seguono (TAB. 2), con ben quattro con una capitalizzazione superiore a 200 miliardi (fra cui fresca di quotazione Alibaba) e altre sei a 150. È una lista in cui non ho fatto distinzione, data la mancanza di linee di separazione nette, fra chi vende prevalentemente hardware e chi software e servizi, fra chi serve prevalentemente il mercato consumer e chi il corporate, fra gli operatori telecom e le cosiddette OTT-over the top (Verizon è entrata ad esempio come visto nel cloud e Google sta investendo in reti di comunicazione veloci in diverse città statunitensi). È una lista che non vede la presenza di alcuna impresa ICT italiana, ma ove – anche togliendo il vincolo del settore di appartenenza – riuscirebbe a entrare solo Eni con i suoi quasi 89 miliardi di dollari di capitalizzazione (Intesa Sanpaolo, Enel e Unicredit seguono a quote comprese fra 52 e 48).
Infine (TAB. 3), la lista delle imprese più giovani o comunque di successo recente, graficamente distinte per età di fondazione e tripartite: quelle quotate non comprese fra le grandi, con il loro valore di borsa; quelle oggetto recente di acquisizione; quelle infine non ancora quotate, ma di cui è disponibile la capitalizzazione implicita sulla base della quale sono stati effettuati i conferimenti di capitale più recenti.