@umbertobertele
Umberto Bertelè è autore di “Strategia”, edizioni Egea
Molti ricorderanno la celebre frase “le azioni non si contano ma si pesano”, che Gianni Agnelli era solito ripetere nei lunghi anni che lo videro ai vertici del potere “reale” nel nostro Paese: una frase che trovò la sua più significativa concretizzazione nel 1997 quando la famiglia, con il solo 0,6 per cento delle azioni (possedute attraverso Ifil), assunse – anche se per un periodo breve – il controllo de facto di Telecom Italia, come capofila di un gruppo di investitori che in sede di privatizzazione della società ne aveva acquistato complessivamente meno del 7 per cento. Ricorderanno sicuramente che per mantenere il controllo di Fiat anche in presenza di aumenti di capitale rilevanti la famiglia, come era d’uso all’epoca, aveva dovuto costruire una piramide societaria lunga: una piramide che (forse solo) Marco Tronchetti Provera superò più tardi in lunghezza, quando volle impadronirsi a sua volta – con capitali molto limitati – di Telecom Italia.
Tutti fatti di un passato che sembra ormai lontano, tipici di un capitalismo che ignorava il significato stesso della parola governance e che non si preoccupava di apparire nelle sue scelte politically uncorrect: superati dalle regole che l’Italia – anche se in ritardo e con molte esitazioni – ha progressivamente adottato, con l’idea di adeguarsi ai paesi più avanzati.
La sorpresa? Che le stesse cose, senza destare scandalo alcuno, le sta facendo nella sostanza (anche se con una forma diversa) l’impresa che da anni è – insieme con Apple – ai vertici delle classifiche mondiali per innovatività: Google. E non è la sola, perché ha trovato importanti imitatori. Il problema dei due co-fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin è stato, sin dalla quotazione nel 2004, lo stesso di Gianni Agnelli: come mantenere il controllo della società senza penalizzare la raccolta di capitali di rischio. Un problema che ci avevano spiegato essere quasi solo italiano, perché negli Stati Uniti il modello largamente prevalente era da sempre quello delle public company ad azionariato diffuso (in larga parte nelle mani dei fondi), dove semmai il CEO – sfruttando l’assenza di azionisti di riferimento e lo scarso attivismo (sino agli anni più recenti) dei fondi – riusciva a esercitare una leadership de facto molto forte.
La soluzione nel 2004 fu quella di introdurre azioni di classe B – non trattate in borsa e con un potere di voto di 10 volte superiore – a fianco di quelle di classe A: con il risultato che attualmente Page e Brin controllano, con il 15 per cento di quota azionaria, il 55,7 per cento dei diritti di voto (cui va aggiunto il 5,5 nelle mani del presidente ed ex-CEO Eric Schmidt). Un modello adottato in passato da società svizzere e tedesche, ma come detto anomalo per la borsa americana. Un modello che, secondo un noto docente californiano di legge intervistato da Financial Times, ha introdotto nella Silicon Valley una “new era of insider capitalism” e che ha fatto scuola, essendo stato poi copiato dai fondatori di Facebook, LinkedIn e Yelp. Il fatto nuovo è che Page e Brin – sempre preoccupati per il rischio di perdere il controllo nel caso in cui Google avesse bisogno di richiedere nuovi capitali alla borsa per sostenere lo scontro in atto ai massimi livelli nel mondo Internet – hanno avuto l’idea creativa di affiancare alla classe A, azioni a potere di voto basso, e alla classe B, azioni a potere di voto alto ma non trattate in borsa, una nuova classe C di azioni a potere di voto nullo: simili a quelle che la riforma del nostro diritto societario ha introdotto nel 2003-2004 (con scarsissimo successo) in sostituzione delle “vecchie” azioni di risparmio, ma anomale – e inizialmente oggetto di contestazione – nella tradizione statunitense.
Il risultato: Page e Brin, senza complicate piramidi societarie, controllano Google allo stesso modo in cui Gianni Agnelli controllava la Fiat. E, sino a che ovviamente la fiducia nella società rimarrà viva, potranno raccogliere dalla borsa capitali a volontà emettendo azioni di classe C, senza variare minimamente il loro potere in termini di voti: analogamente a quanto faceva Gianni Agnelli, costretto però ad allungare la piramide societaria quando il peso (diretto o indiretto) nelle singole società componenti rischiava di scendere sotto il 50 per cento.
Note. (1) Sulle piramidi societarie italiane – ovvero sulla cosiddetta struttura a scatole cinesi – si veda Brioschi F., Buzzacchi L. e Colombo M.G. “Gruppi di imprese e mercato finanziario. La struttura di potere nell’industria italiana”, 1990, Nuova Italia Scientifica (ora Carocci). (2) Sulle operazioni finanziarie effettuate da Google si possono vedere i due articoli di Richard Waters sul Financial Times, del 2 e del 3.4.204 rispettivamente: “Google founders look to cement control with novel share split” e “Google: The price of a vote”. (3) Si consiglia anche la lettura dell’articolo di Morya Longo su Il Sole 24 Ore del 14.1.2014 “Consob apre alle modifiche della Vietti”, in cui si dà notizia di uno studio da parte di Consob dei pro e dei contro all’introduzione anche in Italia delle azioni a voto multiplo, allo scopo di incentivare le imprese a quotarsi.