“La recessione peggiora, cala l’export. Industria in caduta da venti mesi”, titolava l’ennesimo articolo sulla crisi del Corriere della Sera dell’11 giugno, con un incipit altrettanto drammatico: “Il rischio di avvitamento dell’economia italiana è ormai vicino”. Il ridecollo, dunque, è ulteriormente rinviato e quello che è più grave è che nel frattempo sono molto numerose le imprese che chiudono per sempre, accanto a quelle che falliscono.
Più chiusure significa più disoccupati da mantenere, un po’ da parte dello Stato e un po’ da parte delle famiglie di appartenenza. Più fallimenti non significa solamente più disoccupati, ma anche possibili effetti a catena sui fornitori e distruzione del capitale proprio delle banche, che – se non ripristinato con aumenti di capitale o annullamento dei dividendi – si traduce (a causa dei vincoli introdotti per evitare crac del sistema finanziario complessivo) in una ulteriore contrazione dei finanziamenti bancari all’economia, ovvero in un inasprimento del credit crunch. Più chiusure e più fallimenti non significa solamente per lo Stato dover mantenere più persone, ma anche riscuotere meno tasse dirette e indirette; significa, in presenza del vincolo del tre per cento al deficit dei conti pubblici, imporre nuove tasse o (con una soluzione migliore ma comunque recessiva nei suoi effetti di breve termine) ridurre la spesa. La spirale negativa così riparte e il rimbalzo appare più lontano.
L’economia va male, perché va male la domanda interna, perché le banche prestano pochi soldi, perché la PA paga con il contagocce, perché anche l’export – unica fonte di consolazione – sente i contraccolpi di una crisi che (anche se in misura molto differenziata) si sta estendendo a gran parte dell’Europa.
Paradossalmente rimane su livelli relativamente bassi lo spread, evidenziando una volta di più le stranezze della finanza: che sembra più affascinata dalla riduzione del deficit nei conti pubblici che non preoccupata dallo slittamento continuo del PIL e dal conseguente peggioramento continuo del rapporto fra debito e PIL. Una situazione chiaramente instabile, legata alla promessa di Mario Draghi (in discussione presso la corte costituzionale tedesca mentre scrivo) che la Banca Centrale Europea farà tutto il possibile per salvare l’euro, che richiede soluzioni forti per fermare la spirale negativa e invertirne il segno.
Per fermare la spirale negativa occorrono però soldi. Occorre che l’Europa allenti il suo vincolo sul deficit, ma non basta. Occorre che i mercati finanziari internazionali, quelli cui attingiamo per coprire il nostro debito, si convincano che il debitore Italia si sta impegnando in una seria ristrutturazione, volta a correggere molti dei fattori negativi che affliggono la nostra economia e la nostra società: gli sprechi di danaro publico, che rendono la PA poco efficace ed efficiente rispetto a quello che ci costa; l’evasione fiscale, più oggetto di provvedimenti urlati demagogici (spesso depressivi per la domanda) che non di verifiche silenziose – ma molto più incisive – attraverso l’incrocio delle banche dati; l’eccesso di burocratismo e la faragginosità delle regole, che rappresentano un freno potente alle nuove iniziative e tengono lontani dall’Italia gli investimenti diretti esteri; i ritardi della giustizia civile, che conferiscono vantaggi impropri ai cattivi comportamenti; l’insufficiente attenzione alla diffusione delle tecnologie più innovative e alla nascita di nuove imprese. Una ristrutturazione che a mio avviso non deve essere valutata con l’ottica dei vantaggi a breve (i risparmi derivanti da una riduzione degli addetti nella PA sarebbero ad esempio in larga misura cancellati dalla crescita degli oneri pensionistici), ma che possa dimostrare al mondo – e ai mercati finanziari in particolare – che il Paese sta facendo sul serio. Una ristrutturazione che serve quindi non tanto per ridurre il deficit corrente (anche se qualche vantaggio lo si potrebbe ottenere), ma per guadagnare la fiducia necessaria a finanziarne uno più elevato, che permetta però di fermare la spirale negativa.