Lo sentiamo ripetere ormai quotidianamente, quasi come un mantra: il mondo va veloce e le aziende devono adeguarsi in fretta alle dinamiche competitive anzi, per quanto possibile, bisogna anticiparne le tendenze.La gestione dell’innovazione all’interno di una grande azienda impone al management di risolvere un dilemma fondamentale: come è possibile assicurare una leadership forte che, tuttavia, non inibisca l’espressione della creatività dei singoli individui? Il tradizionale approccio del ‘far crescere dall’interno’ le professionalità e la creatività oppure ‘mutuarle dall’esterno’ richiede tempi lunghi, che nelle condizioni economiche attuali risultano insostenibili. E allora quale può essere la soluzione? Semplice: sfruttare i singoli contributi di creatività e innovazione che ciascun membro dell’organizzazione può offrire e metterli a fattor comune, favorendo la genialità diffusa.
Tra i primi colossi industriali a sperimentare questo nuovo approccio ci sono General Electric e PepsiCo e, più di recente, Apple, Pixar e Google. Acceso sostenitore della filosofia del ‘collective genius’ è Greg Brandeau, compagno di avventure di Steve Jobs dapprima in Apple e, successivamente, in Pixar, relatore al World Business Forum Milano.
I TRE PILASTRI DEL GENIO DIFFUSO
Tre sono i cardini di questo approccio allo sviluppo della creatività. Anzitutto, la cosiddetta ‘willingness’, ovvero la predisposizione delle migliori condizioni perché la genialità collettiva possa proliferare. Il focus, in questo caso, ruota intorno al perché esiste l’azienda, qual è il suo scopo e quali sono i suoi obiettivi di breve (economici) e lungo termine (strategici). Il secondo aspetto riguarda quello che gli inglesi chiamano ‘engagement’, l’impegno che ciascun componente dell’organizzazione mette nell’interagire con gli altri per risolvere i problemi. Esattamente come avviene nel corpo umano, in cui ogni cellula è interrelata con migliaia di altre. Ed ecco che, di nuovo, la condivisione dei valori e degli obiettivi aziendali è fondamentale. «In Pixar, per esempio –precisa Brandeau –, l’obiettivo era riuscire a fare i migliori film per famiglie che fossero mai stati realizzati e tutti contribuivano a questo scopo, dal magazziniere all’ingegnere della grafica 3D. Questo permetteva di assicurare un livello di collaborazione tra i vari dipartimenti che raramente ho visto in altre organizzazioni. A volte le persone dovevano fare parecchi straordinari per aiutare altri team ma lo facevano con convinzione, perché avevano sposato in pieno gli obiettivi dell’azienda». I risultati in concreto? Quindici film campioni d’incassi nelle sale, ora diventati dei blockbuster, senza che alcun progetto si sia mai tramutato in un fallimento.
Infine, l’ultimo pilastro della genialità diffusa è quella che Brandeau definisce ‘power interaction’ e che «significa saper rispettare i ruoli, ma anche i punti di vista differenti. Lo
scopo del brainstorming deve essere la soluzione di un problema o un intervento migliorativo, quindi occorre rispettare qualsiasi considerazione o critica, anche quelle che arrivano da una persona alla base della piramide organizzativa aziendale».«Infondere sicurezza alle persone dei diversi team, in modo che non provino imbarazzo a fare critiche costruttive o rimettere in discussione le decisioni prese è la vera sfida – sottolinea –. Molte persone potrebbero avere delle idee potenzialmente dirompenti per l’azienda, ma se l’organizzazione non crea l’ambiente utile perché possano essere espresse al meglio allora queste idee probabilmente non verranno mai esternate». I leader più innovativi, in definitiva, non sono quelli che pensano di sapere tutto ma quelli che hanno sviluppato la capacità di riconoscere il vero talento e riescono a circondarsi di persone in gamba, predisponendo l’ambiente giusto perché tutti siano in grado di dare espressione al proprio genio e alla propria creatività.
Un altro aspetto spesso citato dal manager è il rispetto della diversità di pensiero legata al vissuto e alle tradizioni del singolo individuo. Questo vale soprattutto per gli Stati Uniti, dove molte aziende prediligono assumere e riunire in team persone appartenenti a gruppi etnici diversi (ispanici, asiatici…), perché il vissuto, le tradizioni e il diverso modo di pensare di ciascuno è utile a favorire l’innovazione.
IMPARARE DAI FALLIMENTI
«Il problema principale che cito quando qualcuno mi chiede quale sia il maggior ostacolo alla diffusione dell’innovazione condivisa è l’incapacità di mettersi in discussione. Il mondo oggi cambia molto più in fretta di quanto avveniva anche solo cinque anni fa e le aziende devono essere sempre pronte a ridisegnare i propri modelli di business, i propri cicli produttivi e, di conseguenza, i propri obiettivi». Non si tratta certo di un processo facile e non si può pensare che sia una questione che riguarda solo le multinazionali. Le aziende più piccole sono, spesso, quelle nelle quali si manifesta la maggior rigidità di pensiero, sia da parte dei proprietari che dei lavoratori.«Ma è proprio in queste realtà che la genialità condivisa si rivela più efficace, perché sovente al loro interno si lavora già in piccoli team molto integrati nei quali le persone sono in contatto diretto,visivo, tutto il giorno».
«Steve Jobs, con il quale ho lavorato a stretto contatto per anni – prosegue – era una forza della natura. È riuscito a fondare e dirigere tre realtà multimiliardarie, ovvero Apple, Pixar e quella che io chiamo Apple2, quando è stato richiamato a condurre la società che aveva fondato anni prima. Il suo carisma era innato, riusciva a convincere tutti che la sua proposta fosse sempre la migliore. Poi, però, con l’esperienza si è reso conto che scambiare, condividere, anche mettere in discussione le idee e i progetti si rivela più efficace che non imporre le proprie opinioni, pur se basate su ottimi assunti. La sua forza è stata quella di sapersi circondare delle persone giuste, di creativi, persone che pensavano fuori dagli schemi, non di ‘yes man’». Tutti all’interno della società posseggono una ‘fetta’ di genio, si dice convinto il manager, e «il mio obiettivo, nelle realtà presso le quali ho lavorato, è sempre stato riuscire a creare le condizioni ideali perché ciascuno potesse esprimere la sua creatività al meglio, accelerando l’innovazione e migliorando la soddisfazione dei singoli».
Un esempio concreto? William Curran, Responsabile delle iniziative Cloud di Google, alcuni anni fa aveva riscontrato problemi all’apparenza insanabili con il BIOS del motore di ricerca. I due team che lavoravano sotto la sua direzione, a quel punto, hanno abbandonato l’idea di mettersi in competizione l’uno contro l’altro e, in totale autonomia, hanno creato un sodalizio, durato ben tre anni, che ha permesso di trovare la soluzione definitiva all’intoppo tecnologico. Tutto questo è stato possibile perché all’interno di Google si è sempre cercato di creare un ambiente ‘fertile’ per lo sviluppo di forme di genialità collettiva. La paura del fallimento, a detta del manager, è un altro pesante deterrente all’innovazione: «La sperimentazione genera, in ogni caso, risultati. Ecco perché osservando ciò che non ha funzionato, metabolizzando le critiche e cercando le modalità migliori per porre rimedio agli errori commessi è possibile favorire l’innovazione. Anche il fallimento può essere fonte d’ispirazione, tramite quella che io amo definire agilità creativa».
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Portare l’innovazione nei settori più tradizionali
Greg Brandeau è il portabandiera, in tutto il mondo, della cultura Maker, un movimento che incoraggia l’applicazione delle tecnologie per scopi diversi da quelli per le quali inizialmente sono state sviluppate. Si tratta di un movimento sociale che opera, però, con uno spirito ‘artigianale’, mettendo a disposizione dei contributori metodi di fabbricazione tipici delle aziende, in passato dominio esclusivo delle istituzioni e non dei singoli individui. Secondo il manager, l’apprendimento di qualsiasi tecnologia dovrebbe avvenire ‘sul campo’(learning-by-doing) e dovrebbe sempre essere incoraggiata l’esplorazione delle intersezioni possibili tra settori tradizionalmente separati, come la programmazione informatica e la siderurgia. In questi contesti è la Rete il punto di incontro delle genialità individuali, perché la comunità dei Maker si incontra virtualmente, su siti web dedicati, e utilizza i social media come repository dei contributi individuali oppure come un’agorà per scambiarsi idee, suggerimenti, commenti e critiche. Stampanti e scanner 3D, tecnologie Cloud, microcontrollori programmabili e droni sono solo alcuni degli strumenti che stanno favorendo la crescita del movimento Maker. Questi, combinati con la progressiva diffusione dell’Open Source, dapprima in ambito software e successivamente anche a livello hardware (microcomputer), e del Cloud stanno, contribuendo in maniera decisiva al successo dell’Internet of Things (IoT,Internet delle cose). La “nuvola” è di per sé il servizio fulcro dei Maker, perché digitalizza il flusso di lavoro e permette l’evoluzione verso la cosiddetta ‘economia collaborativa’. Abilita, inoltre, la produzione distribuita, ovvero il download di file che si traducono immediatamente in oggetti attraverso un processo di fabbricazione digitalizzata e, in questo senso, la stampa 3D assume un ruolo chiave. Inizialmente utilizzata per produrre a basso costo i prototipi dei futuri prodotti, per esempio nell’industria aerospaziale, oggi i suoi ambiti applicativi si estendono agli oggetti di uso domestico per arrivare fino all’ambito sanitario, con soluzioni utili a realizzare protesi e impiantiche si adattino al meglio a chi li dovrà usare. A tendere, la stampa 3D diventerà sempre più economica, tanto che si inizia già a parlare di “produzione personale”, come avviene per un abito sartoriale.
Chi è Greg Brandeau
Ingegnere formatosi al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, Greg Brandeau ha maturato nel corso degli anni una profonda esperienza nella guida di aziende innovative. La sua carriera inizia nel 1993 al fianco di Steve Jobs, dapprima in NeXT Computer e, successivamente, in Pixar, con il compito di sviluppare team e tecnologie all’avanguardia per il gigante dell’entertainment. Quando Pixar viene ceduta a The Walt Disney Company (2006), Brandeau diventa Vice Presidente Esecutivo e CTO (Chief Technology Officer) di The Walt Disney Studios. Dal 2013 è Presidente e Direttore Operativo di Maker Media, media company che pubblica riviste e libri. Nel suo best seller “Collective Genius: the art and practice of leading innovation” fa leva sulla sua esperienza per diffondere la filosofia della leadership focalizzata sull’innovazione. È anche un profondo sostenitore della Rete e della stampa 3D come motori dell’innovazione all’interno delle aziende più tradizionali.