L’App di Enel e le interferenze con Google Maps e Waze
Venerdì 17 maggio 2019 l’annuncio che (come comunicato dall’Ansa) “l’Antitrust [italiano] ha avviato un’istruttoria su Google per presunto abuso di posizione dominante. Google [componente maggioritaria di Alphabet], secondo quanto spiega l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, avrebbe rifiutato di integrare nell’ambiente Android Auto la app “Enel X Recharge“, sviluppata da Enel per fornire agli utenti finali informazioni e servizi per la ricarica delle batterie delle auto elettriche.
Perché questo sgarbo nei riguardi di Enel, primo gruppo elettrico e primo gruppo in assoluto – in alternanza con Eni – per capitalizzazione di Borsa (64 miliardi di $) in Italia, strategicamente impegnato nella costruzione di una rete indispensabile (anche se non unica) per la crescita dei veicoli elettrici nel nostro Paese? Presumibilmente per evitare interferenze con le sue due app Google Maps e Waze integrate in Android Auto per fornire gratuitamente servizi – di navigazione e di informazione sul traffico – agli automobilisti e raccogliere in contropartita dati su di essi con cui alimentare il digital advertising, principale motore dei suoi ricavi e della sua capitalizzazione (809 miliardi di $).
La class action contro Apple: troppo alti i margini sulle App di terzi nello store
Pochi giorni prima, lunedì 13 maggio 2019, con una sentenza che potrebbe diventare storica, la Corte Suprema statunitense aveva considerato ammissibile una class action dei consumatori contro Apple, per il controllo esclusivo da essa esercitato – attraverso l’App Store – sull’accesso delle app di terzi nel suo ecosistema e per la rilevante “tassa” sui loro ricavi (30 per cento) da essa imposta: provocando un calo istantaneo di 120 miliardi della sua capitalizzazione di Borsa, prossima ai 1000 miliardi di $.
La logica sottostante ai due provvedimenti è la stessa, ed è analoga a quella di alcune sentenze dell’authority antitrust UE, la principale delle quali del 2018 proprio contro Alphabet-Google costretta a pagare una multa di 4,34 miliardi di € in relazione alla posizione dominante di Android nell’ambito dei sistemi operativi per gli smartphone: quando una innovazione ha troppo successo, l’impresa che ha innovato perde il diritto di sfruttarla integralmente. È una logica che può apparire nuova, perché le piattaforme digitali oggetto delle accuse – l’iOS di Apple e l’Android di Alphabet-Google – hanno pochi anni di vita (il primo iPhone apparve nel 2007 e Android fu ufficialmente presentato alla fine dello stesso anno) e il loro enorme successo è ovviamente ancora più recente. Ma è una logica che – guardando all’intero ambito dell’information technology – ha ormai cinquant’anni di vita.
I primi provvedimenti dell’antitrust contro Ibm e Microsoft risalgono agli anni 70
È del 1969 infatti il primo attacco dell’antitrust statunitense a Ibm, diventata quasi monopolista nei mainframe dopo avere sbaragliato la concorrenza con l’introduzione nel 1964 del rivoluzionario System/360: un attacco terminato solo tredici anni dopo, con il ritiro dell’accusa nel 1982, quando la diffusione dei PC aveva ormai completamente alterato il quadro competitivo; un attacco che ebbe però una ricaduta molto importante – la nascita dell’industria del software – perché spinse Ibm sin dal 1969, per attenuare la tensione, a modificare il suo modello di business con l’unbundling del software e dei servizi, venduti separatamente (creando quindi spazio per la concorrenza) invece che inclusi in un pacchetto unitario. È del 1994 il primo attacco a Microsoft, relativamente alla sua posizione dominante nei sistemi operativi per PC e ai connessi abusi, culminato nel 2000 con la sentenza (poi contestata e mai eseguita) che obbligava Microsoft a spezzarsi in due società indipendenti, separando i sistemi operativi dalle altre componenti di software: per evitare il ripetersi di quanto accaduto con l’incorporazione in Windows di Internet Explorer, finalizzata ad espellere dal mercato il browser di Netscape – di grande successo – e a impedire la nascita di un potenziale pericoloso concorrente. Anche l’attacco a Microsoft fu di lunga durata, complessivamente diciannove anni, e si concluse quando il contesto competitivo era ormai completamente cambiato, per la crescita impetuosa del mobile con Apple e Alphabet-Google – i due accusati attuali – come protagonisti.
I sette peccati capitali di Google, Apple e delle altre Big Tech
Ecco le accuse più frequenti contro le Big Tech. Per ulteriori approfondimenti, rimandiamo al video integrale del convegno che si è tenuto al Politecnico di Milano il 26 marzo dal titolo“Big Tech sotto attacco: il dibattito in corso” (qui il link), con il key note speech di Umberto Bertelè, Professore emerito di Strategia di Impresa; Chairman Osservatori Digital Innovation, e la moderazione di Alessandro Perego, Direttore Dipartimento di Ingegneria Gestionale Politecnico di Milano; Direttore Scientifico Osservatori Digital Innovation. Hanno partecipato Giampio Bracchi, Professore emerito di Imprese Digitali; past Presidente Fondazione Politecnico, Francesco Caio, Presidente Saipem, Federico Fubini,Vice Direttore Corriere della Sera, Pietro Guindani, Presidente Assotelecomunicazioni; Presidente Vodafone Italia, Sergio Mariotti, Professore ordinario di Economia dei Sistemi industriali, Cristiano Radaelli,VicePresidente vicario Anitec-Assinform; Presidente Metlac.
1. Elusione/evasione fiscale
Le imprese multinazionali hanno da sempre utilizzato la cosiddetta ottimizzazione fiscale, sfruttando legalmente le differenze nelle modalità di tassazione dei diversi Paesi (ad esempio la tassazione particolarmente favorevole dell’Irlanda nell’ambito UE) e i “buchi” che si venivano a creare. Per le imprese che svolgono larga parte delle loro attività e transazioni attraverso Internet (le cosiddette OTT-Over The Top) – si è aggiunta la facilitazione di avere spesso un bisogno limitato di personale nelle aree servite e di potere così meglio sfuggire ai controlli locali. Amazon e Facebook ad esempio, accusate negli anni scorsi di evasione fiscale per la mancata denuncia della loro “stabile organizzazione” sul territorio italiano, hanno dovuto concordare un pagamento forfettario al nostro fisco per chiudere le vertenze.
2. Disprezzo delle regole/elusione della regolamentazione
Le OTT in generale sono spesso accusate di disprezzo delle regole: disprezzo da esse giustificato con la (vera o presunta) obsolescenza delle regole stesse. L’elusione, d’altra parte, è spesso resa più facile dalla diversità dei modelli di business innovativi rispetto a quelli per cui la regolamentazione è stata concepita.
Uber e Airbnb ad esempio, in conflitto rispettivamente con i taxisti e gli albergatori, hanno fruito nei primi anni di crescita dei vantaggi da deregolamentazione, per poi trovarsi esposte in molte parti del mondo a pesanti attacchi da parte delle categorie colpite e/o delle autorità locali. La possibilità di sfuggire alle regole, in particolare a quelle rigide imposte alle banche, ha d’altra parte facilitato la crescita di molte fintech: che potrebbero però entrare in crisi anche profonda se sottoposte a tali regole.
3. Eccesso di concentrazione/abusi da posizione dominante
Il caso Google-Enel in Italia e quello Apple negli Stati Uniti entrano in questa categoria. Le big tech sono accusate di abusi da posizione dominante per lo sfruttamento del controllo che esse hanno sulle grandi piattaforme – motori di ricerca, social network, strutture di ecommerce, sistemi operativi proprietari (Android, iOS, ecc.) – per promuovere i propri interessi. Oltre agli esempi citati, interessante l’accusa spesso informalmente fatta ad Amazon di sfruttare la posizione di gestore della piattaforma per i suoi interessi di e-retailer: una commistione fra i due ruoli che recentemente l’India (anche se per motivi prettamente politico-elettorali) ha vietato, colpendo duramente non solo Amazon ma anche il co-leader Walmart -Flipkart.
4. Violazione della privacy
Sono soprattutto Facebook (cui fanno capo anche Instagram e WhatsApp) e Alphabet-Google (quasi monopolista nei motori di ricerca e proprietario fra l’altro di YouTube) a essere poste sotto accusa per la violazione della privacy, per disattenzione (frequenti i casi in cui milioni di indirizzi email o di password diventano di dominio pubblico) o volontariamente, per il valore che i dati stessi hanno nella profilazione delle persone finalizzata al digital advertising. Le accuse potrebbero estendersi nel prossimo futuro ad Amazon, che sta accrescendo la sua presenza in tale ambito.
5. Violazione della proprietà intellettuale
Un’accusa frequente (che ha portato recentemente all’approvazione di una nuova direttiva UE in merito), fatta soprattutto a Facebook e Alphabet-Google, di violazione dei diritti di autore; non volontaria, se dovuta all’incapacità di un controllo preventivo del materiale immesso in rete (in YouTube piuttosto che in Facebook) o deliberata, se utilizzata come strumento per attirare sempre più persone.
6. Fake news
Facebook soprattutto e Alphabet-Google le principali accusate, per l’incapacità di controllo dei flussi e di filtraggio delle fake news (peraltro concettualmente di difficile definizione) o per la leggerezza nel rendere disponibili i dati personali in loro possesso per una profilazione politica (come nel caso Facebook-Cambridge Analytica).
7. Scarsa trasparenza degli algoritmi e uso improprio dell’Intelligenza artificiale
La scarsa trasparenza degli algoritmi – sempre più presenti nella nostra vita quotidiana e con un’incidenza sempre maggiore sulla privacy e sulla concorrenza che appare destinata a una ulteriore crescita con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale – sta diventando un tema di rilevanza politica, soprattutto negli Stati Uniti e nell’UK. Fra le proposte: l’obbligo di una approvazione preventiva (come per i farmaci), da parte di una authority ad hoc; l’introduzione di un responsabile etico nelle imprese, che vigili sulla correttezza degli algoritmi stessi. Il caso forse più famoso è quello dell’algoritmo utilizzato da Volkswagen per ingannare i controlli sui livelli di emissione dei motori diesel; il caso più recente è quello dell’algoritmo di Facebook che utilizzava (violando la legge statunitense) informazioni sui luoghi di abitazione per discriminare minoranze razziali e immigrati nell’invio di offerte di lavoro o proposte immobiliari.