L’idea di raccogliere in un piccolo e-book le mie riflessioni – pubblicate nell’arco di quasi 7 anni su Digital4Executive – sulla digitalizzazione, sui business model delle imprese che l’hanno cavalcata con maggior successo e sulla disruption da essa generata in molti comparti dell’economia – mi è nata con l’uscita della seconda edizione di “Strategia”, che proprio su questi temi è focalizzata.
Sono riflessioni che nella maggior parte dei casi non superano le 4 mila battute: il limite massimo per un editoriale per non occupare più di una pagina nella versione cartacea. Ma ci sono anche storie un po’ più lunghe, che raccontano ad esempio i fermenti in atto nell’automotive e nella mobilità, che guardano alle innovazioni nelle banche e nella finanza, che esaminano le motivazioni – reali ma spesso anche fiscali e/o finanziarie – delle fusioni e delle acquisizioni, che cercano di discutere la ragionevolezza dei valori che la Borsa attribuisce alle grandi imprese del mondo digitale (cinque di esse l’1 agosto 2016 occupavano i primi cinque posti al mondo per capitalizzazione) o che i fondi di venture capital e gli investitori privati attribuiscono a start-up digitali non ancora quotate inserendole fra gli unicorni.
Sono riflessioni datate? Sicuramente sì, perché la digital transformation ha tempi di evoluzione estremamente rapidi. Ma può essere forse di qualche interesse capire, rileggendo quanto scritto nel momento in cui i fatti si verificavano, quale fosse l’interpretazione all’epoca predominante dei fatti stessi (che io cercavo di mettere in luce nei miei articoli) e quali le aspettative.
Ci sono molte sfasature rilevanti o interpretazioni errate rispetto a quanto accaduto dopo? È un parere che lascio al lettore. La mia scelta – facilmente verificabile sugli archivi di Digital4 – è stata quella di tagliare solamente gli articoli di natura macroeconomica, numericamente prevalenti nei primi anni per la violenta crisi che aveva colpito il nostro Paese.
Voglio citare tre casi. Nel primo articolo dell’ebook – “Anniversari: dieci anni fa lo scoppio della bolla Internet” (luglio 2010) – sono sicuramente sottovalutate sia la capacità di riscossa di Dell (“il passaggio dal desktop al portatile ha messo in crisi sostanziale il business model di Dell e la sua posizione dominante nei pc”) e Microsoft (“il disfacimento in atto dell’idea stessa di pc sta minando lo storico monopolio di Microsoft”), sia la gravità della crisi di Nokia (“l’impressionante evoluzione degli smartphone sembra stia confinando Nokia, nonostante la quota elevatissima tuttora detenuta, nella fascia meno remunerativa del mercato”). Ma è viceversa delineata nella sua ampiezza l’idea di disruption, divenuta virale solo negli anni successivi (“è in caduta libera il business model dei giornali, che perdono copie e pubblicità; è a rischio quello delle televisioni, che vedono parte della loro audience trasferirsi ai social network; sembrano svanire i sogni dei grandi operatori telecom di essere i protagonisti della rete; i giochi elettronici sono sempre più insidiati da quelli online; e si vendono persino meno orologi, perché l’ora può essere facilmente letta sui cellulari”).
Nell’articolo “Quotazioni alle stelle per i social network: valore reale o nuova bolla?” (maggio 2011) tra le imprese più promettenti, sia per la rilevanza dei finanziamenti privati ricevuti sia per le aspettative sulla capitalizzazione in sede di IPO, appaiono – alle spalle di Facebook ma davanti a Twitter e soprattutto a LinkedIn – Zynga e Groupon, ora confinate nella fascia di valore fra 2,5 e 3 miliardi di dollari (mentre Facebook è a quota 370 e LinkedIn è stata acquisita da Microsoft per 26 miliardi). La tesi di fondo è però abbastanza in linea con quanto accaduto poi: “Siamo di fronte a una nuova bolla dopo quella del 2000? È parere unanime che, a differenza degli ultimi anni ’90, si abbia a che fare con imprese nel senso più completo del termine, dotate di una strategia definita e strutturate in corrispondenza. I grandi dubbi riguardano invece il valore a esse attribuito, che sembra fortemente influenzato dall’abbondanza di soldi “a caccia di investimenti”. La mia sensazione è che saranno molto poche le imprese in grado di mantenere in prospettiva (o addirittura migliorare) l’attuale valutazione e che il mercato viceversa punirà duramente quelle che non si dimostreranno all’altezza delle aspettative”.
Infine un piccolo moto di orgoglio. Nell’articolo “Gli USA, la Volkswagen e le imprese hi-tech” (ottobre 2015) avanzavo timidamente un sospetto: “E se l’attacco fosse una vendetta degli Stati Uniti per la quasi-crociata che l’UE, sotto la spinta soprattutto tedesca, sta portando avanti contro le imprese tech, Google in primo luogo, ma anche Apple, Amazon, Facebook e Uber?” I fatti accaduti successivamente – Apple multata dall’UE per 13 miliardi di euro, Deutsche Bank multata dal Department of Justice statunitense (con riflessi molto più pesanti) per 14 miliardi di dollari, Facebook inibita dalla Germania a utilizzare i dati della sua sussidiaria WhatsApp – stanno portando i commentatori di tutta la grande stampa internazionale a inquadrare i singoli episodi nell’ambito del pesantissimo scontro politico-economico in atto.