Dopo le grandi paure allo scatenarsi della crisi e le grandi speranze del periodo successivo, l’incertezza appare essere divenuta il tratto dominante nell’economia e nella politica, a livello interno e a livello internazionale.
L’incertezza, che ha la manifestazione forse più evidente nella forte volatilità dei mercati finanziari, è in larga misura figlia degli squilibri formatisi nel tempo, tamponati ricorrendo alla finanza – con un enorme aumento dell’indebitamento degli stati e dei privati – invece che corretti agendo sulle cause reali. I paesi ricchi (tra cui l’Italia) non hanno voluto ad esempio prendere atto dell’esigenza di rivedere stili di vita e modelli di welfare a fronte dell’entrata in scena di paesi quali la Cina o l’India: con un comportamento simile a quello dei vecchi nobili di fine ‘800, al crescere della borghesia. E, in assenza di correttivi reali, ha assunto una natura quasi strutturale lo squilibrio negli scambi commerciali fra paesi esportatori netti come la Germania e la Cina e paesi importatori netti come l’Italia, con la generazione di squilibri finanziari continuamente nuovi.
L’incertezza, nel contempo, è figlia dei dubbi su quale sia una possibile cura per correggere gli squilibri e delle conseguenti esitazioni e oscillazioni nelle politiche pubbliche. Non ci sono risposte condivise, né a livello accademico né politico, a domande del tipo: è possibile uscire dalla crisi attraverso logiche di pareggio di bilancio, che notoriamente comportano (almeno a breve) effetti recessivi? Riuscirà l’euro a sopravvivere agli squilibri crescenti fra paesi, quando proprio la volontà di mantenere una moneta comune impedisce a quelli in difficoltà manovre di riaggiustamento classiche come la svalutazione della moneta?
L’incertezza, come la storia insegna, è nemica della crescita. Se il futuro è incerto, non ci indebita per effettuare nuovi investimenti e non si investe nemmeno quando si ha la liquidità necessaria a disposizione: è noto ad esempio che le imprese non finanziarie quotate statunitensi, che in questi anni hanno avuto andamenti medi più brillanti del complesso dell’economia, dispongono di una liquidità inutilizzata ormai pari al PIL italiano. Se il futuro è incerto si prestano con molta più esitazione i soldi, e l’esitazione si trasforma in credit crunch se – come accaduto con Basilea 3 e con le imposizioni dell’Authority bancaria europea – il consiglio alla prudenza nel prestare soldi diventa obbligo di legge.
L’incertezza non deve però indurre al torpore, nell’attesa che qualche evento messianico rimetta in moto l’economia mondiale. Né devono indurre al torpore la congiuntura economica negativa (siamo di nuovo in recessione), la disoccupazione che aumenta (è stata superata la soglia del 9 per cento) e la forte scarsità di risorse finanziarie. Quando i soldi sono pochi occorre concentrarsi, a livello sia privato sia pubblico, su quei miglioramenti – a priori tantissimi – che richiedono soprattutto intelligenza e determinazione: intelligenza per individuare ad esempio nuovi mercati e nuovi bisogni, come molte nostre imprese hanno saputo fare negli ultimi anni (spesso superando i risultati pre-crisi); determinazione nel rompere gli schemi e gli assetti di potere, che quasi sempre rappresentano il vero ostacolo all’innovazione nella Pubblica Amministrazione.