EDITORIALE

È meglio un CEO autoritario o un CEO capace di motivare?

Due casi di questi giorni riaccendono il dibattito su quale sia il tipo di figura più efficace, anche alla luce dei recenti successi di Apple e Uber mentre erano guidate da leader sgradevoli e dispotici. Una sentenza del Tribunale di Milano ha sancito che i brillanti risultati non bastano se il CEO è “demotivante e prevaricatore”. Ma a volte un capo “difficile”, se non è “bullo”, è quello che più rapidamente può abbattere gli ostacoli alla trasformazione aziendale

Pubblicato il 21 Giu 2017

ceo

Umberto Bertelè, professore emerito al Politecnico di Milano, è autore di “Strategia”, edizioni Egea, disponibile in questi giorni nella seconda edizione, focalizzata sulla trasformazione digitale. A questo link è disponibile un e-book in pdf, realizzato in occasione dell’uscita del nuovo libro, che raccoglie le riflessioni pubblicate nell’arco di quasi 7 anni su Digital4Executive. 

Non è sicuramente un tema nuovo, ma ci ritorno perché nel giro di due giorni – curiosamente – mi sono imbattuto in due articoli che ne parlano. Uno del Financial Times, che riprendeva il tema stesso a seguito della pubblicazione del rapporto di una commissione di inchiesta per valutare il comportamento di un top manager in ambito sportivo. E uno del Corriere della Sera, che commentava la sentenza del Tribunale del lavoro di Milano, chiamato a deliberare sulla liceità del licenziamento di un CEO bravissimo nel conseguire buoni risultati economici ma eccessivo nell’esercizio del suo potere.

Personalmente simpatizzo con il modello del CEO “coinvolgente”, soprattutto nelle imprese “brain intensive” che – perché molto innovative e/o perché attive in contesti comunque soggetti a scosse continue – hanno bisogno dell’impegno assoluto di chi opera all’interno. E il Tribunale del lavoro di Milano sembra sulla mia stessa linea (anche se ho molti dubbi sul fatto che siano i tribunali a sentenziare in materia di organizzazione). Ma sono ben conscio del fatto che alcuni dei più grandi successi dell’ultimo decennio – quali il nuovo modello di mobilità urbana di Uber e l’accesso in mobilità a Internet (con l’iPhone) di Apple – sono stati realizzati da CEO di stampo assolutamente autoritario, se non addirittura sgradevoli nella gestione dei rapporti umani: Travis Kalanick si è dovuto almeno transitoriamente dimettere, travolto dalle accuse sul clima creato in Uber; Steve Jobs ha visto crescere la sua fama di grande innovatore insieme con quella (anche a livello cinematografico) di leader dispotico.

Quale era il caso sottoposto al Tribunale del lavoro di Milano? La richiesta di danni da parte dell’ex-CEO della filiale italiana di Aon, co-leader mondiale nel brokeraggio assicurativo, licenziato “per giustificatezza” per il “clima inutilmente autoritario” instaurato in Aon Italia, giudicato dalla casa madre “demotivante, talora prevaricatore di ruoli e competenze, tutt’altro che sereno e costruttivo”: questo nonostante il riconoscimento degli ottimi risultati economici e dei lusinghieri posizionamenti di mercato raggiunti per “le sue riconosciute qualità”. Un caso di scuola, che ha visto schierati su fronti opposti i due grandi studi Bonelli-Erede e Gianni-Origoni-Grippo-Cappelli & Partners, con il giudice che ha sentenziato a favore del licenziamento richiamando tra l’altro la “differenza fra autorevolezza e autoritarismo gratuito” e la “gestione manageriale di stampo quasi familistico”.

E che cosa diceva l’articolo del Financial Times, estendendo le sue considerazioni dal caso specifico al tema più generale dei CEO autoritari? Riprendeva la tesi di Roderick Kramer, della Stanford Graduate School of Business, pubblicata nel 2006 sulla Harvard Business Review, che “nasty leaders can be hugely successful, if they don’t cross the line”, distinguendo la figura del CEO “bullo”, che punta a umiliare gli altri per gratificare se stesso, rispetto a quella del CEO “intimidatore”, che – avendo una visione di quella che dovrà essere la trasformazione dell’impresa – mira ad abbattere tutti gli ostacoli che si possono frapporre al raggiungimento dell’obiettivo, spesso sfruttando la capacità di intuire i punti di insicurezza (dove attaccare) delle persone.

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