Approfondimenti

Does Digital Agenda matter?

Per la prima volta l’Italia si sta davvero animando sul tema dell’economia digitale, la cui importanza per la crescita del Paese non è mai stata così chiara come in questo momento di recessione. Perdere il treno vuol dire dovere affrontare la competizione da parte di chi, invece, l’opportunità l’ha colta. Ci attende un’impresa difficile e non priva di pericoli, anche perchè il nostro Paese, essendo molto indietro, dovrà fare molto di più degli altri in meno tempo

Pubblicato il 16 Apr 2012

Digital-agenda

Ci sono dei temi che fioriscono periodicamente e, come i frutti di stagione, sfioriscono senza lasciare traccia. E altri che quando si presentano, cambiano il paesaggio. L’Agenda Digitale sembra appartenere a quest’ultima specie. Ma è davvero così?

Cosa è successo in Italia

Fino a poco più di un anno fa il termine “Agenda Digitale” era associato a vecchi gadget di un’epoca elettronica in via di superamento. Almeno, in Italia.

Poi, dopo un appello lanciato dalle pagine del Corriere della Sera, al quale ICT4Executive ha sin dall’inizio dato grande risalto, grazie al contributo di qualche migliaio tra manager, professori, uomini di spettacolo ma anche tanta gente comune, il termine “Agenda Digitale” ha acquistato improvvisamente un’enorme popolarità all’interno del mondo politico e delle imprese con tutt’altra connotazione: un’Agenda Digitale è la strategia per digitalizzare un’economia, che sia locale o nazionale.

Non senza equivoci e resistenze, il nuovo concetto è stato sorprendentemente metabolizzato rapidamente. Sin dal primo momento si sono mosse le aziende, coagulandosi intorno all’Associazione ProSpera ed elaborando il progetto Digit@lia.

Poi la politica nazionale, con una prima proposta avanzata dall’ex ministro Gentiloni del PD seguita dall’On. Rao dell’UDC. Subito dopo la politica regionale, con la Regione Lombardia a fare da apripista, approvando già a novembre la sua Agenda Digitale, seguita da Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Trentino e altre ancora, creando un fronte tanto ampio quanto eterogeneo di “Agende Digitali regionali”.

Sulla scia, a breve giro, si è materializzata qua e là una costellazione di Agende Digitali comunali, purtroppo più ricche di idee e buone intenzioni che di fondi per realizzarle.

Quindi, il Governo. Già nel suo discorso di insediamento al Senato, il neo-nominato presidente Monti affermava che «occorre […] operare per raggiungere gli obiettivi fissati in sede europea con l’Agenda Digitale». E conseguentemente, appena chiusa la fase più calda dell’emergenza del debito sovrano, ha istituito una cabina di regia per l’Agenda Digitale coinvolgendo quattro ministri, un viceministro e un sottosegretario: in totale 6 ministeri e 54 persone.

Nel frattempo, si è mosso anche l’associazionismo. Il Digital Advisory Group (DAG), che coinvolge le maggiori imprese dell’ecosistema Digitale italiano, da poco formato, ha presentato un insieme di proposte organiche in vari ambiti, dal Venture Capital all’eLearning fino all’eGovernment. Poi si sono fatti avanti gli Stati Generali dell’Innovazione, Confindustria Digitale e ancora ProSpera che ha lanciato dalle pagine del Corriere della Sera un concorso nazionale di idee per una “Agenda Digitale per l’Italia delle nuove generazioni”.

Infine, si è mosso il Parlamento, dove è stato presentato un ddl con primi firmatari Gentiloni (Pd) e Rao (Udc) mentre sta per esserne presentato un altro a nome del PDL. Per farla breve, un attivismo inusitato. Ma è giustificato? Per rispondere occorre fare un po’ di storia.

Historia magistra vitae

Quando in Italia si è affacciata la discussione sull’Agenda Digitale, a Bruxelles la “Digital Agenda for Europe” era la prima delle sette iniziative “faro” che componevano Europe 2020, la nuova strategia per fare tornare a crescere ed essere competitiva l’Unione Europea. Lanciata dalla nuova Commissione Europea poco dopo l’insediamento nel 2010, le è stato assegnato un obiettivo molto ambizioso: riuscire a realizzare in Europa una “fiorente economia Digitale” entro il 2020 per ridare smalto all’economia del Vecchio Continente.

In altre parole, è un programma molto ampio che ha lo scopo di generare «vantaggi socioeconomici sostenibili grazie a un mercato digitale unico basato su Internet veloce e superveloce e su applicazioni interoperabili», che devono innescare un ciclo virtuoso di crescita, posti di lavoro, competitività e sostenibilità.

La seconda Commissione Barroso ci ha scommesso tanto. Così tanto che il vecchio incarico ricoperto da Viviane Reding, Information Society and Media, è stato ribattezzato semplicemente “Digital Agenda” e affidato a un commissario come Neelie Kroes, di grande esperienza, essendo al secondo mandato, e di notevole peso, ricoprendo anche il ruolo di vicepresidente.

In concreto, la Digital Agenda è un programma composto da 101 azioni divise in sette pilastri, di cui 23 nelle mani degli stati nazionali. Ma non è meramente una collezione di azioni o iniziative per la digitalizzazione della UE: è la visione di una via attraverso la quale l’Europa, e ogni stato membro, può darsi un ruolo e un futuro nel XXI secolo.

Se le intenzioni con cui è nata la Digital Agenda europea sono indiscutibilmente buone, va detto però che il passato su cui si è andata a innestare non è propriamente definibile come esemplare. Sull’onda delle grandi attese della New Economy, la Commissione Europea aveva già lanciato nel dicembre del 1999 la eEurope Initiative con l’obiettivo di “accelerare la transizione dell’Europa verso una knowledge based economy” e ottenerne i benefici in termini di “maggiore crescita, più lavoro e un accesso migliore per tutti i cittadini ai nuovi servizi dell’Information age”.

Pochi mesi dopo, al summit di Lisbona del marzo 2000, i capi di stato della UE avevano lanciato una nuova strategia, ben più ampia, per rendere l’Europa più dinamica e competitiva, poi divenuta nota come “Strategia di Lisbona”, coprendo un ampio ventaglio di ambiti di intervento in cui l’ICT aveva un ruolo non centrale ma spesso complementare.

La Strategia di Lisbona puntava a creare nella UE un’economia più “verde”, a sviluppare lo sforzo comune in ricerca e innovazione, migliorando allo stesso tempo le competenze della sua forza lavoro ma anche il business environment, con meno burocrazia e un migliore accesso al credito. All’interno di questa cornice era stata lanciata la prima fase della eEurope Initiative, battezzata eEurope 2002, con un articolato piano di azione focalizzato su tre obiettivi:

• connessioni ad Internet più a buon mercato, più veloci e più sicure;

• investire nelle persone e svilupparne le competenze;

• stimolare l’utilizzo di Internet.

Dopo avere riportato risultati piuttosto modesti, il programma eEurope 2002 era stato riformulato in eEurope 2005, lanciato a giugno del 2002 con il Consiglio Europeo di Siviglia, seppure in un clima sempre più tiepido verso l’ICT in seguito allo sboom della New Economy.

Strutturato in modo più articolato, eEurope 2005 si prefiggeva di lavorare su entrambi i fattori dell’economia di Internet. Da una parte, puntava a creare condizioni più favorevoli per lo sviluppo delle infrastrutture per Internet – la “supply side” – nella convinzione che la diffusione del broadband stimolasse l’uso di applicazioni e servizi più avanzati su Internet – la “demand side” – e che insieme potessero sviluppare la Società dell’Informazione.

Se però eEurope 2005 ampliava notevolmente il suo raggio di azione, non poneva rimedio invece al suo problema genetico: l’intero programma eEurope non era dotato di veri fondi da investire, se non simbolici, ma era piuttosto un policy framework all’interno del quale altri programmi di spesa, come i Fondi Strutturali, il Sesto Programma Quadro o il eTEN potevano essere meglio focalizzati. Inoltre, avendo un ruolo di coordinamento e stimolo delle politiche nazionali, non poteva obbligare in alcun modo i Paesi riluttanti a sviluppare azioni coerenti con i suoi obiettivi.

Con l’insediamento della nuova Commissione e la chiusura di eEurope 2005, l’obiettivo viene riorientato verso la crescita e l’occupazione, come accadde per l’intera Strategia di Lisbona, lanciando “i2010 – A European information society for growth and employment”.

I suoi tre obiettivi principali, espressi sempre in forma di linee guida, diventano ancora più ambiziosi rispetto al passato e più centrati sull’ICT, puntando a creare una “società dell’informazione europea” con 3 linee di azione:

• realizzando un mercato unico europeo per l’economia digitale, per sfruttarne le economie di scala collegate ai suoi 500 milioni di consumatori;

• intensificando la ricerca e l’innovazione nell’ICT, considerata un fattore decisivo per la crescita e la competitività;

• promuovendo l’inclusione e la qualità della vita all’interno della società dell’informazione.

Nonostante questo sforzo di riorientamento, il bilancio di i2010, come dell’intera Strategia di Lisbona, è stato negativo: «Anche se dei progressi sono stati fatti, va detto chiaramente che l’Agenda di Lisbona […] è stato un fallimento», come già nel 2009 scriveva Fredrik Reinfeldt, primo ministro della Svezia, insieme alla Finlandia i soli due Paesi ad avere raggiunto gli obiettivi prefissati.

A 14 anni dalle sue prime mosse, l’Europa non è riuscita a creare né un mercato unico digitale né dei campioni continentali da opporre ai giganti di Internet americani. Da questo fallimento nasce l’Agenda Digitale Europea, per porre rimedio a una situazione in cui i progressi fatti hanno piuttosto accentuato le differenze tra i migliori e i peggiori, che sono più marcate ma più vere quando le si vede ad un certo livello di dettaglio, che non creato opportunità. E il nostro Paese ne esce in una posizione preoccupante.

Il fenomeno si è ulteriormente esteso, sino a creare quella che il Financial Times ha definito una Great Patent Bubble: una crescita impetuosa dei valori di Borsa di società, dai nomi spesso ignoti al grande pubblico, specializzate nello sfruttare le potenzialità della proprietà intellettuale per creare non tanto prodotti innovativi, ma brevetti-trappola con cui estorcere danaro a chi vi incappa.

Quindi…

Da questa analisi, appare chiaro che l’Agenda Digitale Europea è una sorta di ultima chiamata per l’economia digitale europea. È purtroppo anche vero che è invece la prima volta che l’Italia si anima davvero su questo tema. Ma la sua importanza non è mai stata così chiara come in questo momento.

Ne ha già parlato Andrea Rangone del Politecnico di Milano in queste pagine. Ne hanno scritto anche McKinsey, Boston Consulting Group e Arthur D. Little, ognuno coprendo aspetti diversi. Ma la questione rimane la stessa: l’economia digitale sta diventando un’economia reale. Già oggi potrebbe sedere al tavolo del G8 portando con sé quel che manca a tutti: la crescita economica. Pochi sottolineano però che perdere questo treno non vuole dire avere un’opportunità in meno ma dovere affrontare un problema in più: la competizione da parte di chi invece l’opportunità l’ha colta.

Ed è una competizione senza confini. Da questo punto di vista, non è tanto rilevante domandarsi se l’Agenda Digitale è importante, ma come renderlo evidente a chi non lo vuole intendere. E l’esperienza dei fallimenti europei deve indurci ad essere molto attenti in proposito. In particolare, adesso, quando ancora non ci sono i primi prodotti della cabina di regia, ci sono tre pericoli che occorre scongiurare. Il primo è di visione.

L’attivismo italiano è promettente ma occorre ricordare che l’immaterialità del mondo di Internet crea uno strano effetto ottico: chiunque ci guardi dentro, come in uno specchio, vede prima di tutto il riflesso della propria immagine, la sua esperienza e il suo punto di vista. Non è tanto un problema che riguarda gli addetti ai lavori, che questo pericolo lo conoscono e sono in parte immunizzati. È piuttosto un problema di tutti gli altri che però in questo frangente sono molti di più e molto più importanti.

La Strategia di Lisbona ha mancato il suo obiettivo principale perché era il frutto di un compromesso tra visioni diverse del futuro, non inconciliabili ma neanche convergenti: un’economia della conoscenza ma sostenibile, con crescita e lavoro ma anche coesione, dinamica ma rispettosa dell’ambiente. Purtroppo, la storia insegna che le grandi svolte necessitano più di focalizzazione che di compromessi, soprattutto se si hanno grandi ambizioni.

Le semplificazioni eccessive, i dettagli trascurati, la mancanza di visione d’insieme e la scarsa contestualizzazione sono il vero pericolo. Questo chiama i manager del settore ICT a un nuovo ruolo. Non più soltanto tecnici ma “visionari”, capaci di “vedere” il futuro ma anche di condividerlo. Il secondo problema è di ambizione.

Ambizioni elevate, come quelle richieste dalle circostanze, richiedono un’applicazione almeno all’altezza. Nel passato della UE l’utilizzo della “peer pressure” con obiettivi volontari – una carota senza bastone – è stato un comodo espediente per affrontare governanti recalcitranti ma non è riuscito ad indurre cambiamenti su larga scala tali da creare quella massa critica capace di innescare la crescita della società dell’informazione.

Il risultato non è stato “comunque” un passo avanti ma, ad essere obiettivi, un nulla di fatto. Mutatis mutandis, nel nostro contesto nazionale il rischio è che se non ci saranno dei netti switch-off verso il Digitale nell’essenza “reale” della nostra economia, non ci sarà “qualche” cambiamento, ma “nessun” cambiamento. Ed è un pericolo serio.

Lunghe liste di azioni o di progetti non possono colmare un vuoto di sostanza. Bisogna davvero volere qualcosa per averla. Sembra ovvio, ma lo è di più se si pensa che l’Italia ha un’Agenda Digitale nazionale ma è in competizione con tutti gli altri Paesi, che hanno anch’essi una propria Agenda e guardano alla stessa torta da spartire.

L’esperienza insegna che il nostro è un Paese in cui «è meglio un male sperimentato che un bene ignoto», come scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Cambiare è faticoso e anche quando, in generale, fosse necessario, in particolare, potrebbe essere più rischioso che promettente. È un calcolo egoistico che è naturale per i singoli ma che non deve valere nel complesso del nostro sistema. Infine, è un problema di dettaglio.

Guardando l’Italia da vicino, il nostro compito è più difficile. Non solo perché partiamo in svantaggio, ma perché abbiamo un’articolazione più complessa dei nostri competitor globali. Se ci focalizziamo soltanto sulle imprese, queste sono più piccole della media delle grandi economie, ed è un dato noto, ma anche più periferizzate per localizzazione, ed è un problema raramente sottolineato.

Se ci deve essere un cambiamento vero, senza lasciare indietro pezzi importanti della nostra economia, deve toccare ogni angolo, anche quelli più remoti, non solo al Sud ma anche al Nord. Occorre pensare tutto alla giusta scala di dettaglio, che purtroppo è molto “micro”. Piani di copertura o di intervento pensati solo per i grandi centri o per aree facilmente raggiungibili non potranno davvero incidere sullo status quo. Se si pensa, inoltre, che essendo molto indietro, per colmare il divario dovremmo fare molto di più degli altri in meno tempo, è chiaro ancora di più che l’impresa è molto difficile.

La soluzione dell’Agenda Digitale italiana, pertanto, non può solo calare dall’alto ma deve anche maturare dal basso. È lo scenario più difficile perché non si può approcciare per decreto. Serve allora un patto trasversale all’intera società italiana per mobilitare tutte le risorse disponibili, tra le imprese, nel settore pubblico, nell’associazionismo, nel terzo settore.

Paradossalmente, «se tutto deve rimanere com’è, è necessario che tutto cambi». Per tutti gli italiani ciò vuol dire che se vogliamo mantenere il nostro benessere, sempre più relativo ma comunque incontestabile, sono necessari grandi cambiamenti. Per chi lavora nell’ICT, invece, è una richiesta ancora più difficile da ottemperare: se non si sarà all’altezza delle necessità di questo momento, non ci saranno nuove opportunità per rimediarvi.

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