Nell’era della Data Driven Economy il ruolo di Chief Data Officer assume sempre maggiore importanza per migliorare la prestazioni dei servizi e prodotti offerti e mantenere il vantaggio competitivo sul mercato, entrando così a pieno titolo nella C-Suite. Tuttavia meno di 2 aziende italiane su 10 (19%) affermano di avere nel proprio organico un vero e proprio Chief Data Officer. A rivelarlo è la ricerca realizzata da Denodo – azienda californiana con sede a Palo Alto che si occupa di Data Virtualization – in collaborazione con IKN Italy, obiettivo: indagare come le aziende italiane si stanno organizzando in relazione alla gestione dei dati. 100 le aziende intervistate tra luglio e novembre 2020 per elaborare l’analisi.
A chi il compito della Data Governance?
Secondo lo studio, sebbene il valore dei dati sia ormai sotto gli occhi di tutti, il 29% delle aziende italiane dichiara di non avere ancora una persona che si occupi specificamente della Data Governance. Quando invece viene individuato un responsabile, nella maggior parte dei casi questa funzione è svolta da figure senza una formazione specifica: tra queste emergono quelle del Chief Information Officer (26% del campione totale), considerata la più affine al ruolo, e del Chief Architect (3%). Meno di 2 aziende su 10, dicevano, hanno in organigramma un vero Chief Data Officer.
Sono tre i risultati principali che le organizzazioni intervistate sperano di raggiungere grazie a strategie di gestione dei dati efficaci:
- riuscire a prendere decisioni sempre più accurate grazie a un’elevata qualità dei dati (19%);
- facilitare la delivery delle informazioni e sostenere il loro uso con un approccio Self-Service (19%);
- integrare in modo più agile tutte le informazioni distribuite, e spesso disperse, nei diversi sistemi al fine di migliorarne l’accesso e l’utilizzo (18%).
Il Chief Data Officer, il professionista digitale che trasforma i dati in strategia
Per raggiungere tali risultati però occorre mettere in campo un Chief Data Officer, una guida preparata in grado di indicare la strada da percorre e risolvere le problematiche in ambito Data Governance. Tra le principali, secondo le aziende italiane, i lunghi tempi di attesa per il Business prima di avere a disposizione i dati richiesti (23%), la dispersione dei dati e il loro isolamento all’interno delle diverse strutture aziendali (19%), oltre alla sicurezza dei dati e privacy delle informazioni e alla mancanza di un unico punto di accesso alle stesse, indicati come rilevanti dal 13% degli intervistati.
C’è bisogno di dati più facili da reperire e da usare
Parallelamente alla necessità di inserire la figura di un Chief Data Officer per gestire la grande macchina intorno ai dati, è emersa la necessità di un approccio Self-Service all’analisi e al consumo dei dati. Fondamentale è dunque riuscire a dare agilità e semplicità al percorso, che parte da dove i dati risiedono e arriva fino a chi li deve utilizzare. In Italia nella maggior parte dei casi (65%) l’IT mantiene comunque un ruolo di supervisione importante. Solamente nel 19% dei casi le aziende adottano un Self-Service completo, dove il business opera in piena autonomia. Nel 16% dei casi, invece, il business dipende ancora totalmente dall’IT per la preparazione dei report o di altre aggregazioni e sintesi dei dati.
“Nell’era della Data-Driven Transformation, le decisioni aziendali a tutti i livelli devono essere guidate dagli insight che si generano grazie al proprio patrimonio informativo. Questo richiede necessariamente una democratizzazione nell’accesso ai dati, nonché la capacità di fornire le giuste informazioni a diverse tipologie di utenti, garantendo al contempo sicurezza e governance” commenta Gabriele Obino, Regional VP Sales Southern Europe & Middle East Denodo.
In 0ttica di gestire i dati con facilità si è sviluppata la propensione verso il Cloud. Le titubanze della prima ora sembrano svanite e più di 4 aziende su 5 (84%) affermano infatti di avere in corso un’iniziativa Cloud. Di queste, però, solo il 29% indica di avere più della metà dei propri dati nel Cloud, a conferma che la migrazione è un percorso ancora nelle fasi iniziali ma destinato a crescere. Di contro, l’utilizzo di Data Lake, ovvero repository centralizzati che consentono di archiviare grandi quantità di dati nel loro formato nativo seppur provenienti da fonti diversificate, non è ancora molto diffuso nelle aziende italiane, tanto che oltre un terzo delle organizzazioni (39%) non ne possiede.
Data Virtualization, per gestire tanti dati da sorgenti diverse
All’interno delle aziende dove è facile trovare la presenza di diversi data base, per far dialogare tutti i dati senza il rischio di perderne alcuni o di commettere errori attraverso il classico modello estrazione, trasformazione e caricamento (ETL) dei dati in un nuovo sistema di sintesi è possibile oggi utilizzare la Data Virtualization. Attraverso la virtualizzazione dei dati questi rimangono al proprio posto e viene fornito l’accesso in tempo reale al sistema di origine per i dati.
A tal proposito, lo studio afferma che l’84% delle aziende ritiene che la varietà delle fonti di dati influisca negativamente sulla qualità dell’analisi e, allo stesso tempo, che le aree in cui sono maggiormente necessari dati di alta qualità siano quelle legate ai clienti (25%), alle operazioni aziendali (24%) e alle vendite (20%), dove la qualità è necessaria per un corretto forecasting e per definire la strategia sul mercato. Consapevoli di questo, il 61% delle aziende sta valutando l’adozione di tecnologie di data virtualization per risolvere le sfide aziendali inerenti all’integrazione e gestione del patrimonio informativo.
La virtualizzazione dei dati, infatti, può dare un eccellente contributo, rappresentando non solo un punto unico di accesso ai dati, ma anche il luogo dove questi possono essere modellati e messi a disposizione di chi li deve utilizzare, consentendo di raggiungere una sorta di ordine complessivo che va a beneficio del concetto stesso di qualità.