diventata il primo mercato al mondo dell’auto – con oltre
13 milioni di veicoli immatricolati nel solo 2009 -, il PIL del
Dragone è diventato il secondo del pianeta superando quello del
Paese rivale di sempre: il Giappone. Noi occidentali siamo
storditi da questa manifestazione muscolare di un Paese che fino
a un paio di decenni fa ritenevamo in via di sviluppo mentre ora
decide le sorti del pianeta facendo la voce grossa anche rispetto
agli USA; emblematico, in tal senso, è stato l’andamento
della Conferenza di Copenhagen del dicembre 2009 dove neanche
Obama è riuscito a portare i cinesi dalla sua parte sul fronte
degli obiettivi ambientali. Non dovremmo tuttavia sorprenderci
più di tanto del ruolo attualmente giocato dalla Cina nello
scacchiere politico ed economico mondiale; si tratta, infatti, di
un ritorno alle origini. Per molti secoli, il Dragone ha vantato
un’egemonia culturale ed economica indiscutibile. Ruota e
polvere da sparo sono stati inventati dai cinesi; agli inizi del
diciannovesimo secolo il PIL cinese pesava per circa il 20% di
quello globale. In questo senso, il secolo scorso ha
rappresentato un’anomalia, che ha indotto molti Paesi
occidentali a dimenticarsi della importante storia economica e
culturale della Cina. Ora ce ne accorgiamo: i media
internazionali hanno tutti i giorni in prima pagina qualche
notizia e/o commento sull’ex “impero di mezzo”.
I più dicono che la Cina ha ormai assunto il ruolo di bussola
per l’uscita dalla crisi economica; altri sostengono che
presto il volano della vorticosa crescita cinese si arresterà.
Personalmente, sono dell’idea che il Dragone stia entrando
in una fase estremamente delicata del suo sviluppo; dopo aver
inanellato record su record, l’attuale modello economico
– che ha fatto della Cina il centro produttivo a basso
costo del mondo – manifesta importanti segni di cedimento; il
Partito ha avviato un rilevante dibattito interno su quale strada
di sviluppo perseguire nell’immediato futuro. Se il Dragone
– società complessa in cui vivono oltre cento etnie diverse –
non saprà individuare una traiettoria di sviluppo adeguata,
rischierà di frantumare la propria crescita alla stessa
velocità con cui l’ha creata. Nel prosieguo, cercherò
dimostrare il perché di questa situazione e quali potranno
essere le scelte di politica industriale in grado di alimentare
le grandi aspettative del popolo cinese.
La Cina di oggi
politica avviata trent’anni fa da Deng Xiao Ping. La
riforma dengista ha, in particolare, introdotto il socialismo con
caratteristiche cinesi fondato su un formidabile connubio tra
socialismo e forze di mercato. I risultati sono sotto gli occhi
di tutti; la Cina è stata definita ed è tuttora la
“fabbrica del mondo”; molti dei prodotti che hanno
invaso i mercati occidentali vengono prodotti nel Guangdong – la
zona del Pearl River Delta che confina a sud con Hong Kong -. A
una lettura superficiale, molti si sono fatti l’idea che la
Cina sia l’hub produttivo a basso costo del mondo; una
piattaforma produttiva in grado di realizzare prodotti
contraddistinti da una bassa qualità. In verità, non è proprio
così. La Cina è questo ma è anche un locus di produttori –
secondo un modello di Original Equipment Manufacturing – di
oggetti che fanno parte dei nostri sogni o che comunque si
contraddistinguono per un posizionamento di “alto di
gamma”. Non possiamo, infatti, tacere sul fatto che i
prodotti Apple – iPod, iPhone, iPad – vengono realizzati nel
Guangdong; molti frigoriferi e televisori presenti nelle nostre
case sono di origine cinesi anche se vengono veicolati al mercato
con marchi di notissime imprese occidentali. Insomma, il sistema
industriale cinese ha in questi decenni assunto una connotazione
quantomeno duale: prodotti a basso costo ma anche subfornitura di
eccellenza. I risultati sono stati impressionanti; anche in un
anno di crisi come il 2009, il PIL ha registrato una crescita su
base annua di circa l’11%. Altrettanto impressionante è
l’evoluzione che il Dragone ha avuto sul fronte della
domanda. Oltre all’automotive, la Cina è diventata il
primo mercato al mondo di frigoriferi, telefoni cellulari (sono
oltre 500 milioni); esprime (dopo il Giappone) una domanda di
beni di lusso, che in valore è la seconda del pianeta e
nell’ultimo biennio ha salvato i conti economici di molti
player dell’alto di gamma; vanta il primato della prima
popolazione Internet del pianeta – sono oltre 400 milioni gli
internauti cinesi (pari alla somma dei navigatori degli Stati
Uniti e del Giappone) – mentre sono oltre 70 milioni i turisti
cinesi che scelgono di trascorrere un periodo di vacanza
all’estero. La domanda di beni di consumo ha registrato
negli ultimi anni tassi di crescita che hanno quasi sempre
superato il 15% annuo; non a caso tutte le principali catene
straniere della grande distribuzione organizzata sono presenti in
loco con centinaia di punti vendita strutturati. Una recente
indagine ha anche evidenziato come la ormai celebre propensione
al risparmio delle donne cinesi stia perdendo consistenza: nel
2009 queste hanno speso oltre il 60% dei loro stipendi in beni di
consumo e cosmetici quando, nel 2006, le stesse accantonavano
ancora il 70% delle loro entrate. A fronte di un sistema
socio-economico così effervescente, gli investimenti in
infrastrutture non sono stati e non saranno da meno, anzi sono
impressionanti soprattutto se paragonati a quelli della nostra
Italia. Negli ultimi venti anni, sono stati ad esempio realizzati
circa un centinaio di aeroporti, il piano di stimolo da 585
miliardi di dollari recentemente varato prevede 16.000 km di
nuove linee ferroviarie ad alta velocità; sono, infine, previsti
nei prossimi dieci anni oltre 50.000 km di nuove autostrade.
I limiti del Dragone di oggi
Il quadro appena tracciato non può indurci a un ottimismo
acritico sul futuro della Cina. Il Dragone deve essere
considerato ancora oggi il Paese delle contraddizioni. Alcune
evidenze possono contribuire a chiarire questa affermazione. Se
è vero che l’economia cinese è la seconda del pianeta e
la classe media è in continua crescita – tanto che si stima che
nel 2020 vi saranno oltre 300 milioni di individui con un potere
di acquisto comparabile a quello occidentale -, il reddito medio
pro-capite è ancora molto basso: circa 3.600 dollari
all’anno. Il Paese può essere, in particolare, diviso in
tre macro-aree: la zona costiera orientale – che va da Pechino
fino a Guangzhou passando per Shanghai – è decisamente la più
sviluppata sia dal punto di vista industriale che sociale.
All’estremo opposto, vi è la parte occidentale – ove
insiste anche il Tibet -, che pur essendo stata oggetto negli
ultimi anni di ingenti investimenti pubblici presenta ancora un
livello molto elevato di povertà. La terza e ultima zona è
quella centrale: essa è oggetto di grandi investimenti
industriali per via della sua attuale convenienza economica e del
buon livello di infrastrutture presente. Città come Anhui,
Hunai, Jiangxi – che fino a pochissimi anni fa erano considerate
assolutamente secondarie – sono, infatti, ora al centro dei piani
di sviluppo sia di imprese cinesi che straniere. È pertanto
rilevabile in Cina un vero e proprio “divario
reddituale”: i redditi medi della zona costiera sono quasi
cinque volte maggiori rispetto a quelli delle campagne
dell’ovest. Un’ulteriore criticità del Dragone
riguarda l’inadeguatezza del sistema di welfare. Ancora
lacunoso è il sistema educativo – soprattutto nelle campagne -;
inadeguato il sistema pensionistico – tanto che larga parte della
propensione al risparmio dei cinesi è diretta conseguenza della
necessità di integrare la pensione con risorse proprie;
insufficiente il sistema sanitario pubblico, che – almeno nel
centro-ovest della Cina – non è in grado di far fronte alle
esigenze della popolazione. Non è infine pensabile che la
crescita economica dell’ex impero di mezzo dipenda in
misura così significativa dagli investimenti (solo il 35% del
PIL è frutto di consumi). Se le enormi masse di denaro investite
fino ad oggi in asset materiali e infrastrutture hanno trovato
una legittima giustificazione nella necessità di fornire un
impulso al sistema industriale del Paese, è invece necessario –
in una prospettiva di medio pe riodo – che lo sviluppo economico
cinese passi per un consolidamento della domanda interna. Anche
perché, molto banalmente, l’export non potrà più
rappresentare – alla luce della crisi che ha colpito tutti i
Paesi occidentali – un volano di crescita dello stesso tenore del
passato.
La Cina di domani
Lo sviluppo economico della riforma dengista si è portato dietro
cambiamenti enormi in quest’ultimo biennio; forse
impensabili anche solo cinque anni fa. In particolare, sono
individuabili tre discontinuità, che a mio avviso impatteranno
più di altre sul futuro della Cina. Si tratta, in primo luogo,
dell’impennata che i costi del lavoro hanno subito nel
corso dell’ulti ma estate a causa della minaccia esercitata
dagli operai di tornare nelle campagne per il fatto che il
reddito percepito non garantiva un tenore di vita decoroso nella
ricca zona della costa orientale. In Foxconn – azienda cinese
nota ai più per essere il produttore dell’iPhone e
dell’iPad – gli stipendi del personale sono, ad esempio,
aumentati di oltre il 70% da un mese con l’altro; nel
Guangdong, molte altre fabbriche sono state costrette ad
incrementare i salari del 20-30%. Di grande rilievo sono anche le
tensioni sociali che sono andate via via emergendo in molte zone
del Paese: per la prima volta, si è assistito a rivolte popolari
contro l’apertura di insediamenti chimici ritenuti troppo
pericolosi; allo stesso modo, a Shanghai, non è stato possibile
realizzare il prolungamento del Maglev sul tragitto
originariamente previsto. Sono, questi, sintomi che dimostrano
una crescente presa di coscienza del ruolo che la società civile
può giocare nell’indirizzare le scelte politiche del
governo e/o delle autorità locali. Anche in Cina, dunque, non
sarà più possibile realizzare qualsiasi opera in nome di un
presunto bene comune. Sta, infine, emergendo un crescente spirito
nazionalista. Esso è il frutto della civiltà del benessere, che
si è andata progressivamente affermando con il vorticoso
sviluppo industriale di questi decenni. Si tratta della seconda
generazione: trentenni e quarantenni, che non avendo mai
sperimentato il significato di una vita di stenti, sono molto
orgogliosi del benessere che il sistema attuale è in grado di
garantire loro e, in questo senso, non guardano
all’Occidente – al contrario dei loro genitori – come a un
modello di riferimento ma riversano le loro ambizioni e la loro
gratitudine su tutto quello che rappresenta la Cina
contemporanea. In questo quadro, una cosa appare evidente: il
modello di una Cina che vuole essere il workshop a basso costo
del mondo non appare più sostenibile o quantomeno non può
essere concepito come l’unica piattaforma di sviluppo
industriale ed economico del Paese. Ritengo invece sarà
indispensabile affermare un modello industriale duale, che tenga
nel dovuto conto le differenti caratteristiche delle varie zone
della Cina e dell’evoluzione del contesto su scala globale.
In particolare, sarà cruciale che il sistema industriale della
costa orientale metabolizzi la necessità di una cultura
dell’innovazione; gli alti costi del lavoro nonché la
crescente domanda interna per una produzione di qualità rendono
infatti non più sostenibile il perseguimento di una strategia
esclusivamente orientata alla leadership di costo. Nel contempo,
le zone meno sviluppate del Paese – il centro-ovest – potrebbero
invece emulare il successo del modello di sviluppo del Guangdong
– la ex fabbrica del mondo – cercando di attrarre investimenti
diretti esteri e/o rilocalizzazioni interne puntando su un
modello di produzione low cost. Si tratta, a tutti gli effetti,
di far convivere due percorsi di sviluppo industriale molto
diversi tra loro ma coerenti con le differenti caratteristiche
del “continente Cina”: emulando dall’imponente
impianto filosofico del taoismo, si tratta di far ricorso ai
principi dello yin e dello yang, ovvero
dell’interdipendenza. Un modello improntato
all’innovazione (Yang) dovrà esistere in Cina in quanto
l’architettura industriale basata su bassi costi (Yin) non
può più rappresentare l’unico percorso di sviluppo
sostenibile, avendo già raggiunto il suo massimo splendore. Se
per i cinesi è sempre valsa la pena di aspettare, oggi che lo
yuan corre sempre di più verso l’alto e che la Cina ha
superato ufficialmente l’economia dei Diavoli venuti
dall’Oceano (i giapponesi), si devono rendere conto che i
risultati ottenuti fino ad oggi rappresentano solo alcuni
importanti traguardi a cui necessariamente se ne devono
aggiungere altri. Non importa quanto ci sarà da aspettare, non
importa se si è nel bel mezzo di una crisi economica mondiale,
la Cina deve rispondere con un colpo di coda: l’innovazione
e non solo stimoli finanziari. Mutuando da un antico adagio
cinese: “La pazienza è potere: con il tempo e la pazienza,
il gelso si tramuta in seta”.
L’Expo 2010 e il padiglione italiano
L’Esposizione Universale del 2010 si è aperta a Shanghai
il primo maggio scorso con una spettacolare cerimonia
d’apertura e si prolungherà fino al 31 di ottobre. I
cinque padiglioni che ospitano le 191 nazioni partecipanti hanno
fatto registrare un flusso di visitatori che, a fine settembre,
aveva raggiunto i 49 milioni. Il tema cui si ispira la kermesse
è “Better city, better life”: migliorare la qualità
della vita in prospettiva dello sviluppo futuro delle città del
pianeta. L’area dedicata all’Expo 2010 si trova sulle
due sponde del fiume Huangpu, collegate da un ponte e da
traghetti fluviali. L’intero sito si estende su una
superficie di oltre 5 km quadrati ed è diviso tra la sezione
Pudong su una riva e la sezione Puxi sull’altra. Intorno
all’area espositiva è l’intera città a essere stata
riplasmata, con linee del metrò realizzate ad hoc, un nuovo
terminal per l’aeroporto di Hongqiao, una rinnovata veste
per il lungo fiume più celebre dell’Asia, il Bund, che è
ora più largo del 40% e più lungo di quasi un chilometro. Oltre
alle 5 aree espositive che ospitano i padiglioni nazionali,
quelli tematici, quelli aziendali, collettivi e delle
organizzazioni internazionali, è stata dedicata un’area di
circa 15 ettari alle Urban Best Practices, ovvero alle esperienze
più significative in ambito urbano ispirate al tema della Città
Eterna. Il comitato organizzatore ha inoltre selezionato 49
progetti relativi a diversi temi (tra cui città vivibile,
urbanizzazione sostenibile, edilizia residenziale e molti altri)
proposti da città e regioni di tutto il mondo; il concorso ha
riscosso un notevole successo, tanto che è stato esposto il
doppio dei progetti inizialmente previsti. Il padiglione italiano
all’Expo ha ottenuto fin dai primi giorni un grande
consenso tra i visitatori e si è aggiudicato il premio come
miglior edificio dell’Expo, assegnato lo scorso anno dalla
municipalità di Shanghai. Il padiglione è situato nella zona C
dell’esposizione ed è stato progettato da un team guidato
dall’architetto romano Giampaolo Imbrighi, vincitore del
concorso tra le 65 proposte. La struttura si compone di venti
moduli funzionali, che rappresentano altrettante regioni, e si
sviluppa su un’area di 3600 metri quadri. La pianta
rettangolare è intersecata da linee irregolari che lo tagliano
per tutta la sua lunghezza e che ricordano il gioco cinese dello
shangai; camminando all’interno dell’edificio il
visitatore ha l’impressione di trovarsi in una piccola
città italiana, fatta di strade, vicoli e cortili.
L’esposizione The Italy of Innovators
Il padiglione italiano ha ospitato dal 24 luglio al 7 agosto
un’esposizione temporanea, chiamata “The Italy of
Innovators”, ideata con l’obiettivo di far conoscere
in Cina e nel mondo le eccellenze tecnologiche del nostro Paese.
Il progetto è stato promosso dal Ministero per
l’innovazione in collaborazione con altre istituzioni
italiane. Attraverso un bando sono state raccolte le candidature
di progetti innovativi presentati da aziende, consorzi,
università e centri di ricerca italiani, selezionandone 265 fra
i più significativi. Il 45% dei progetti presentati sono realtà
già disponibili per il commercio; l’Expo, come dichiarato
dallo stesso ministro Brunetta, ha rappresentato
un’opportunità unica di promozione all’interno del
mercato cinese e un ottimo trampolino di lancio nel mercato
internazionale per le PMI italiane coinvolte
nell’iniziativa. L’evento ha infatti permesso agli
imprenditori partecipanti di incontrare i rappresentanti di 196
aziende cinesi, e in 14 casi l’incontro si è concretizzato
in un rapporto commerciale. Uno dei progetti che più hanno
attirato l’attenzione del pubblico è un robot, progettato
dall’istituto Sant’Anna di Pisa, che automatizza le
procedure di raccolta dei rifiuti differenziati, dotato delle
più avanguardistiche tecnologie, come un sistema di
tracciabilità GPS, un sensore odometrico, scanner laser per
identificare l’ambiente che lo circonda, sensori
ultrasonici per evitare pedoni ed ostacoli e una modalità di
interfaccia con gli utenti. I passanti potranno infatti
utilizzarlo come totem informativo per ricevere informazioni sui
servizi comunali e sulla qualità dell’aria, che il robot
rileva in autonomia grazie agli speciali sensori in grado di
rilevare i livelli di PM10, CO2, O3 e Nox presenti
nell’aria. Un’altra idea che ha catturato
l’interesse è il prototipo di Mobilità 3.0, un progetto
del CESIA (Centro Studi e Iniziative per l’Ambiente) che si
propone di ridurre i tre principali fattori negativi che
caratterizzano la mobilità: inquinamento, consumo di risorse non
rinnovabili, errori e limiti umani alla guida. La soluzione è un
veicolo a trazione elettrica alimentato ad energia fotovoltaica e
guidato da un sistema informatico di automazione. Il prototipo ha
viaggiato da Roma a Shangai per presenziare all’Expo e dare
prova pratica delle sue funzionalità. TX Active è invece il
“cemento mangia-smog” messo a punto da Italcementi.
Grazie alle sue caratteristiche, il materiale interagisce con la
luce solare ed aiuta ad abbattere gli inquinanti atmosferici
presenti nell’aria e pericolosi per la salute, oltre a
mantenere pulita la superficie degli edifici. Queste e molte
altre le innovazioni presentate al concorso, messe a punto da
brillanti menti italiane relativamente ai più diversi settori
industriali, spaziando dalle costruzioni all’e-government,
dalla sicurezza alla comunicazione.