Progettare una community prevede sicuramente una parte di immersione nella comunità, ma comprende prima ancora la progettazione del contesto entro il quale i membri si aggregano, si muovono, crescono. È un cambio di paradigma chiamato community design e che si inscrive nella nascente community economy. Non è ancora codificato in letteratura, ma di fatto si sta affermando.
In letteratura, infatti, il community design non esiste. La mia amica Daniela Selloni, docente di Product Service System Design al Politecnico di Milano, mi scrive: «L’espressione community design nel linguaggio scientifico del design non è molto usata, non mi sovviene nessun ricercatore di design che si occupi propriamente di ‘progettare una comunità’». Esiste l’espressione community-centred design, che è l’immersione del designer all’interno di una comunità per progettare insieme attività e animazione. Ma è solo un pezzo, almeno per me.
Negli ultimi tempi si osserva la nascita di una community economy, un’economia composta da imprese e organizzazioni che mettono al centro della propria strategia di business le community. Scuolazoo, Weroad, Avventure nel mondo, Airbnb, Friendz, Duolingo, Gengle sono solo alcuni dei tanti community brand (aziende che nascono intorno a una community) presenti in Italia. Vicino ad essi marchi come Leroy Merlin, Adidas, Haier, Lego, Salesforce sperimentano modelli di abilitazione dei propri stakeholder utilizzando tecniche e elementi di quello che sempre di più può essere essere chiamato community design.
Che cos’è, dunque, il community design?
Il community design, a differenza dello user-centered design, mette al centro della progettazione le esigenze delle persone non più come singoli individui, ma come membri di un gruppo (community) che si riconoscono intorno a una proposta di valore. Questa comunità può essere di diversa natura (di scopo, di pratica, di prodotto, ecc.), può essere spontanea o indotta, e prevede sempre un’organizzazione proponente che la promuove e la stimola.
Il community design analizza e progetta non solo le interazioni del singolo con l’organizzazione proponente, ma anche quelle dell’individuo in quanto parte di un gruppo i cui membri interagiscono tra loro e, come gruppo, con l’organizzazione stessa. L’individuo assume un ruolo attivo sia nella progettazione della soluzione (co-progettazione) che nell’organizzazione (co-gestione).
Community design, i 4 ambiti progettuali
Il community design prevede innanzitutto lo studio del sistema di identità della community. Questa si esprime attraverso la definizione della sua proposta di valore (analizzando il bisogno della community), degli attori che possono farne parte e di quelli che invece non devono farne parte (l’antagonista). Prevede, inoltre, lo studio della narrazione che deve essere capace di attrarre e trasmettere emozione.
Quello della community è un sistema identitario che si distingue da quello di un brand o di un prodotto perché integra sempre, in tutte le sue espressioni, una dinamica di attivismo necessaria per aggregare un gruppo e renderlo coeso.
Un modello di ingaggio bidirezionale
Il secondo ambito di progettazione del community design è il modello di ingaggio. Ciò significa definire l’offerta da proporre alla community, i canali di contatto e il piano editoriale. In apparenza, nulla di nuovo rispetto alla progettazione del modello di coinvolgimento di un servizio. Tuttavia la progettazione si differenzia in diversi aspetti rispetto a quella di un servizio, perché l’offerta non è mai monodirezionale (la company che offre), ma deve prevedere, sempre, anche una parte di co-progettazione.
Lo stesso si dica per i canali, che non possono più essere solamente monodirezionali (la company che comunica), ma devono prevedere luoghi e momenti di conversazione continua, dove i membri si incontrano, scambiano informazioni, idee, consigli.
Anche i contenuti assumono un’importanza decisiva in una community, perché diventano veicolo di trasmissione della propria identità (attenzione infatti non solo a quello che si può dire ma anche a quello che non si può scrivere) nonché dell’engagement. La pubblicità, infatti, funziona pochissimo (all’avvio della community per niente) e il coinvolgimento passa prevalentemente attraverso il passaparola. Che si ottiene solo da un’esperienza continuativa, credibile e naturalmente soddisfacente.
Governance, sostenibilità e monetizzazione
Il terzo ambito di progettazione è relativo allo studio del modello di governance. Si tratta di progettare non solo le competenze necessarie per gestire una community, ma anche il suo sistema di co-gestione, e di definire le regole entro le quali la community si muove, scambia informazioni, conversa, si aiuta. La nuova governance del community design include progettare i ruoli e le attività che vengono affidate ai membri; il modo in cui le persone crescono all’interno della community; le motivazioni che spingono a partecipare; il sistema premiale necessario per ricompensare il valore espresso.
L’ultimo ambito di progettazione di una community riguarda il modello di sostenibilità. Qui si definiscono le risorse a disposizione (tempo, competenze, luoghi, tecnologia, budget), il modello di business e le metriche di misurazione. Ciò che cambia rispetto a un servizio tradizionale sono proprio le ultime due variabili, che devono essere non solo quantitative ma qualitative e andare a misurare tutti e tre gli ambiti già descritti: il sistema di identità, di ingaggio e di co-gestione della community.
Il modello di business, a sua volta, è il frutto di un insieme di bisogni che via via la community esprime. Non è vero, come spesso si crede, che una community non può essere monetizzata. La community accetta di pagare i servizi che le vengono offerti sempre e solo se ne riconosce il valore e se sono coerenti, trasparenti e di ottima qualità.
Community design, si parte dal contesto
Il lavoro non è finito qui. Disegnare questi quattro ambiti non significa progettare una comunità, ma definire il contesto e le condizioni entro le quali questa si muove. Una community è fluida per natura. È un organismo che si muove ed è composto da persone. Non si possono disegnare le relazioni fra le persone; si può favorire la costruzione di un ambiente entro il quale le persone possono muoversi.
È con questa consapevolezza che bisogna approcciarsi al community design. Non è consigliabile definire tutto prima di lanciare una community: meglio iniziare riflettendo sui quattro ambiti. Poi, appena possibile, si lancia la community per co-progettare e testare quanto è stato definito con i primi membri che via via si aggregano.
Dalle applicazioni alla readiness per il community design
In definitiva il community design è molto di più del disegno di una comunità: è un approccio che si può applicare a tutti i contesti in cui è presente un gruppo di persone che si vuole coinvolgere e rendere attivo. All’interno di un’azienda possono esser i clienti o gruppi di questi (per esempio gli amanti di un particolare prodotto), i fornitori, le comunità di territorio, i dipendenti che possono a loro volta essere suddivisi in gruppi di pratica, di business, di volontari. In un’amministrazione pubblica possono essere le community di quartiere, di pratica (es. gli innovatori sociali), di scopo; in un’organizzazione tutte le associazioni o le imprese che ne fanno parte.
Il disegno di una community si applica allo studio di ogni gruppo che si vuole aggregare e con cui si desidera costruire una relazione vera. Questo è il reale valore dell’approccio: trasformare un pubblico che per definizione è passivo, o che possiede un grado di interazione minimo, in un gruppo di persone attive che collabora dinamicamente alla costruzione di una soluzione, di un beneficio, di un bene.
Pertanto più che focalizzarsi sull’ambito di applicazione del community design sarebbe più corretto chiedersi qual è la predisposizione che si deve avere nell’approccio al community design. Non basta comprendere quali siano gli stakeholder da coinvolgere: è più importante capire quanto davvero si desidera costruire una relazione produttiva e abilitante con essi. Il punto nodale è se si crede o no che lo sforzo di avere dei collaboratori attivi possa essere un valore per l’organizzazione e per la società intera.