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BCG: la digitalizzazione ha 4 stili, dalla selezione naturale alle “cortine di fumo”

La trasformazione digitale non è più un’opzione: è un obbligo. Ma è gestibile con 4 diversi approcci: uno “darwiniano”, uno disruptive, uno basato su piattaforme abilitanti, e uno su grandi annunci e poca sostanza. Pochi per ora i casi ottimali di “omnicanalità”, che ha 3 forti criticità: decentralizzazione, logistica e IT. Ce ne parla Just Schuermann, Leader of Marketing, Sales & Pricing Practice di Boston Consulting Group Europe

Pubblicato il 20 Lug 2016

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La trasformazione digitale oggi non è una possibile opzione, è un obbligo. Non c’è più tempo per aspettare, il rischio è di finire fuori dal business in pochi anni, come dimostrano casi come Blockbuster Video o Kodak.

È un percorso lungo, in quattro fasi, e quattro sono anche i possibili approcci. Non è detto che si debba per forza rivoluzionare l’azienda, ma bisogna iniziare a muoversi, anche perché la pressione del mercato e degli investitori è forte: tanto che diverse realtà, pur di mostrare che stanno facendo “qualcosa di digitale”, ricorrono a vere e proprie “cortine di fumo”, annunciando imponenti progetti che in realtà hanno ben poco di concreto.

Questo in sintesi il cuore dell’intervento di Just Schuermann, Leader of Marketing, Sales & Pricing Practice di BCG in Europa, e core member della Consumer Goods and Retail Practice della prestigiosa società di consulenza, all’ECommerce Forum 2016 di Milano. A margine dell’evento abbiamo approfondito con Schuermann i punti salienti del suo discorso, partendo dal primo problema: da dove cominciare?

Qual è il modo migliore per avviare la trasformazione digitale?

Secondo l’esperienza di BCG, ci sono quattro fasi della trasformazione digitale. Nella prima un’organizzazione prende coscienza che deve agire, e inizia a esplorare cosa significhi la digitalizzazione nel suo specifico contesto di business. Molti dei nostri clienti per esempio visitano la Silicon Valley o altri distretti tecnologici avanzati per osservare le tendenze e capire cosa stia succedendo alle frontiere dell’innovazione .La seconda fase consiste nel concretizzare le idee nate dalle osservazioni della prima. Quindi qui si decide cosa fare nel caso specifico, in quale ordinee con quali priorità, dando forma alla propria strategia digitale, e alla roadmap per realizzarla. La terza fase è quella dei progetti, dell’implementazione delle piattaforme tecnologiche, dei cambiamenti dei processi, e dell’avvio di nuovi modelli di business. La quarta è la “messa a terra” della trasformazione, lo “scaling up”, in cui il business quotidiano cambia profondamente e le entrate dai nuovi modelli si fanno rilevanti.

Si può fare tutto questo con un modello di continuous improvement, o dev’essere una serie di interventi dirompenti?

Dipende da quanto è forte l’impatto della digitalizzazione sul proprio settore, e da quanto grande è il rischio di muoversi gradatamente invece che velocemente. Nel settore dei retail department store, oggi un modello di business “brick & mortar” puro, senza canali digitali sul web o su mobile, è già molto rischioso, perché il modello vincente è omnichannel. Qui davvero il non muoversi non è un’opzione, perché si finisce fuori mercato. Una dimostrazione che a volte l’evoluzione graduale non basta è Blockbuster Video, che in 5 anni è passata da leader di mercato al fallimento.

Un esercizio che facciamo con i nostri clienti è questo: analizza attentamente il tuo modello di business di oggi, determina esattamente i tuoi fattori critici di successo, e cerca di capire quanto siano attaccabili da un ipotetico nuovo attore che entri nel settore senza strutture pregresse, senza asset e avviamento, armato solo delle nuove tecnologie. Se uno o più elementi sono attaccabili, la mossa giusta è implementare le nuove tecnologie nel modo migliore per aggiornare il proprio modello prima che altri possano sfruttare la vulnerabilità.

Quanti “stili” di trasformazione digitale avete osservato nella vostra esperienza? Può citare qualche caso concreto?

Penso che in generale ci siano quattro “stili”. Uno è di evoluzione naturale, proprio in senso darwiniano: l’organizzazione sperimenta tanti progetti, magari solo cambiamenti di processo, o iniziative pilota con piccoli investimenti in tecnologie innovative. Li lascia “fiorire” e li mette alla prova della quotidianità e del mercato, vedendo quali sopravvivono. Questo è l’atteggiamento di chi sa che si deve muovere, ma non sa esattamente da dove cominciare.

Il secondo stile è quello delle “piattaforme strutturali”, in cui il senior management decide di ricorrere appunto ad apposite business platform come traini della trasformazione. Un buon esempio è Procter & Gamble, che già 15 anni fa ha deciso che una parte del marketing doveva diventare digitale, con obiettivi molto aggressivi da subito in termini di quote di budget pubblicitario da dedicare al web. Anche sul fonte della simulazione 3D dei processi produttivi P&G è stata tra i pionieri, con una serie di soluzioni di digital design di Dassault Systemes, e così pure sul fronte del CRM, già oltre 10 anni fa ha costruito una piattaforma database integrata per la strutturazione e analisi di dati dei consumatori su tecnologie Teradata.

Il terzo approccio alla trasformazione digitale è quello “disruptive”, interno o esterno. Per interno intendo il lancio di modelli di business completamente nuovi accanto a quelli tradizionali. Un tipico esempio è quello delle compagnie aeree che creano compagnie low-cost a fianco del brand e del modello già affermato, per esempio Qantas con Jetstar o Lufthansa con Germanwings. Per esterno invece intendo l’acquisizione di startup con business model dirompenti da parte di aziende consolidate. Nell’automotive per esempio Daimler ha investito molto in startup di mobility, come MyTaxi. Diversi trend profondamente innovativi, dall’autonomous driving al car sharing, stanno totalmente cambiando il concetto di mobilità, quindi se non si investe in essi, presidiandoli, si resta tagliati fuori dallo sviluppo del settore automotive.

Il quarto stile lo definirei “cortina di fumo” (smoke bomb approach): si basa su una grande comunicazione ai media e ai mercati, che però non precisa cosa si stia facendo nei propri laboratori e progetti pilota. È una strategia per tranquillizzare gli stakeholdercon annunci come “faremo un CRM omnichannel”, oppure “stiamo comprando delle startup nella Silicon Valley”, ma non è sorretta da un vero piano strategico e da una roadmap operativa.

Qual è il reale livello di diffusione del modello “omnichannel” oggi in Europa? Può citare dei casi fortemente innovativi in questo campo?

In effetti ci sono pochissime aziende che realizzano molto bene il concetto di omnichannel. Le migliori vengono da un modello digitale puro e si allargano ai canali tradizionali “brick & mortar”. Questo perché partono già da un concetto di “multi-point customer journey”, e attivano anche i canali classici per dare appunto dei touch point in più al consumatore, ma senza mai dimenticare che il passaggio da un canale all’altro dev’essere “seamless”, cioè omogeneo e senza complicazioni. Un esempio è Warby Parker: nato negli Stati Uniti come sito di eCommerce per occhiali, oggi ha esteso l’esperienza di acquisto offline aprendo una serie, seppur ancora limitata, di negozi. Ha ampliato poi il portafoglio dei prodotti brandizzati e alcune tipologie – libri, decorazioni, asciugamani – sono presenti solo nello store fisico.

Ci sono però anche dei retailer tradizionali che realizzano bene l’approccio omnichannel. Uno è l’inglese Argos, che partiva da oltre 750 negozi a fianco della vendita a catalogo, e si è espansa all’eCommerce. Un altro in UK è John Lewis: anche questo partito dal brick & mortar, ora realizza in molte categorie il 20-30% del fatturato con l’eCommerce, e offre una shopping experience molto integrata e omogenea. Negli USA le best practice dell’omnichannel sono Neiman Marcus e Nordstrom, due catene di abbigliamento di fascia alta, che vanno oltre la “seamless experience” mettendoci anche una forte personalizzazione. Entrando in un negozio Neiman Marcus un cliente che ha l’app dell’insegna sullo smartphone viene subito riconosciuto e gli shopping assistant gli vanno incontro per consigliarlo, già informati dei suoi acquisti passati, dei suoi gusti e del suo “stile”.

L’approccio omnichannel ha forti impatti sui processi interni delle organizzazioni: quali sono le aree in cui le ripercussioni sono più critiche?

Le più grandi criticità sono in tre ambiti: il grado di decentralizzazione delle responsabilità, la logistica, e l’IT. Cominciamo dal primo prendendo come esempio il retail tradizionale, in cui tipicamente lo store manager risponde dei profitti e perdite dello store. In Germania lo store manager di Media Markt (casa madre di Media World) ha una quota di minoranza dello store, intorno al 15%, e decide assortimenti, pricing, advertising su scala regionale. Questo ha provocato un ritardo nell’adozione dell’omnichannel, che presuppone decisioni centrali e unificate su elementi come l’assortimento e il pricing. Ci sono voluti anni per aggiustare il modello in modo da integrare anche l’online, e la soluzione è stata concordare un nucleo di prodotti che è presente sia sull’online sia nei negozi con gli stessi prezzi. Permettendo il ritiro in negozio degli acquisti online, tra l’altro, Media Markt ha iniziato a “richiamare” persone nei negozi. Quindi qui il problema in generale è riuscire a cambiare un modello di responsabilità delegata riaccentrando alcune decisioni.

E le ripercussioni su logistica e IT?

Riguardo alla logistica, la criticità più grande è nei settori dove si registrano molti resi, per esempio il fashion. Ovviamente una buona politica di customer satisfaction prevede che il cliente possa restituire e cambiare in negozio un prodotto comprato online, o di ordinare in negozio una misura o un colore che in quel negozio non c’è, grazie alla visibilità in tempo reale di tutte le scorte da parte dello shopping assistant. Ecco: gestire la “reverse logistics” dei resi è molto complicato, richiede approcci di supply chain molto sofisticati.

In generale comunque non è detto che occorra un processo logistico ad hoc per l’eCommerce. La catena inglese Tesco ha avviato l’eCommerce facendo packaging e spedizioni dai negozi, senza magazzini specifici per l’online, che poi però ha creato quando il business online ha superato certe soglie. Quindi su questo aspetto la strategia va calibrata sull’andamento del business.

Infine l’IT. Qui le criticità principali sono due. Una è permettere la visibilità in tempo reale delle giacenze, e quindi poter “virtualizzare” la gestione delle scorte in modo che quelle in un negozio siano disponibili per tutti gli altri. Una best practice in questo caso è usare i negozi come magazzini, senza depositi specifici per le vendite online. La seconda criticità per l’IT è abilitare la visibilità sul cliente: il call center, il negozio, il direct marketing, devono poter vedere un’unica versione dello storico degli acquisti di un cliente, attraverso la loyalty card o altri strumenti.

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Best practice di Big Data: da Tesco a Facebook

Uno dei grandi cambiamenti di quest’epoca è l’enorme disponibilità di dati sulle vendite e sui clienti, ma chi li sta usando già per applicazioni concrete? «Un esempio è Tesco – ci spiega Schuermann – che ha “inventato” la fidelity card 30 anni fa, e ora ha iniziato a sfruttare i dati raccolti per proporre messaggi e offerte molto personalizzate. Ha centralizzato in un unico team tutta l’attività di direct marketing: oggi può capire dallo storico dei miei acquisti come è fatta la mia famiglia, i miei gusti dettagliati di cibo e vini, e così via, e propormi offerte calibrate su tutto questo».

Altro esempio molto avanzato è il gruppo tedesco Otto Group. «È uno dei più grandi online retailer del mondo, sta lavorando con lo specialista di big data Blue Yonder su applicazioni di real time price adjustement, per fare dynamic online pricing basandosi solo sull’andamento delle transazioni in un dato momento».

Ma il caso più dirompente, sottolinea Schuermann, è Facebook, «che permette al marketing di un’azienda di individuare precisamente microsegmenti molto specifici di consumatori, con 15 differenti parametri, tipo “venticinquenni che hanno appena cambiato macchina e stanno per cambiare casa”, rivolgendosi a loro con messaggi specifici nel momento prescelto. È uno strumento rivoluzionario: un esempio emblematico del futuro che ci aspetta».

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