Nel nuovo scenario di Digital Economy, molte start up nascono avendo già nel proprio DNA fondante la “lettura” della nuova realtà. Le aziende “storiche” (o comunque con maggiore longevità) hanno invece la difficile necessità di colmare questo gap coniugando il modello di business attuale con modelli di business complementari, se non alternativi, basati su approcci differenti alla competizione. Non basta infatti cavalcare l’onda digitale, la si deve governare per essere portati laddove i margini hanno la solidità desiderata.
Quando in Minsait – la business unit di Indra per la trasformazione digitale – affrontiamo insieme ai nostri clienti un processo di digitalizzazione, cerchiamo sempre di rispondere ad alcune domande, ovvero: quale ruolo si vuole giocare nel nuovo business? Qual è il vantaggio competitivo e quali sono gli asset volti a garantire la sostenibilità della società a lungo termine? La risposta a queste domande comporta, quando c’è un tema di prioritizzazione delle diverse risorse aziendali, anche definire a cosa si dovrà rinunciare per raggiungere gli obiettivi e come si intende finanziare la transizione. Infine, questa visione deve includere una versione “aspirational” in grado di promuovere i cambiamenti richiesti.
Solo una volta definita questa vision è possibile scegliere il giusto mix tra: approcci che pongono il cliente al centro dell’organizzazione; quelli che privilegiano l’ottimizzazione lean dei processi e dei costi; quelli data centric, in grado di estrarre tutto il valore dalle informazioni disponibili; quelli orientati a rendere flessibili i processi in modo tale da adeguarli al contesto dinamico; quelli open, volti a costituire un ecosistema in grado di arricchire la value proposition.
Tutti questi approcci possono essere inquadrati sui tre principali percorsi proposti da Minsait, coniugando sempre l’attenzione ai risultati finanziari di breve periodo con la ridefinizione del business nel medio-lungo termine.
Il percorso A viene adottato quando l’aspettativa è quella di trasformare il business attuale “dall’interno”; partendo dallo “status quo” e focalizzandosi sulla digitalizzazione dell’interazione con i clienti e dei “processi interni” (modelli operativi). Questo percorso si basa su un tipo di innovazione “incrementale” (Dávila & Epstein, 2014) o, con le parole di Umberto Bertelè, su “un’approccio alla Porter”. In questo caso, considerando lo schema tradizionale di Michael Porter, la società si focalizza sul potenziamento dei propri vantaggi competitivi attraverso l’innovazione dei processi e dei sistemi in essere.
Il percorso B viene attivato quando è necessario creare nuovi business “dall’esterno” senza vincoli e restrizioni rispetto allo “status quo” mediante una strategia di “go to market” digital first con prodotti e servizi di nuova concezione tecnologica.
Il percorso C invece è orientato alla creazione di nuovi business “disruptive”, reinventando l’offerta, il “go to market” e/o la value proposition e creando opzioni di crescita per il futuro.
I percorsi B e C fanno riferimento a un tipo di innovazione dirompente, in un quadro di discontinuità che Bertelè chiama “approccio alla Hamel & Prahalad”. In questo caso, il fattore competitivo determinante è l’insieme di “competenze distintive” che favoriscono il breakthrough thinking, permettendo una maggiore agilità nel processo di cambiamento continuo che subisce la società, orientata a rivoluzionare lo status quo esistente, scoprendo modelli di business inediti.
Nell’attuale Digital Economy, sono soprattutto le aziende con maggiore longevità che si trovano nella necessità di decidere quale di questi percorsi di interpretazione della realtà competitiva adottare, oppure se perseguirli entrambi con un determinato mix di risorse. Da questa scelta e dal corretto tempismo della stessa (oltre che dalla relativa capacità di execution ovviamente) dipende in maniera determinante il successo se non la sopravvivenza stessa dell’azienda. Non sono infrequenti infatti casi di società – soprattutto quelle con una quota di mercato consolidata – che tendono a concentrare i loro sforzi sull’innovazione “incrementale”, migliorando i propri modelli, processi e sistemi, a discapito dell’esplorazione di nuove rotte. È quello che Epstein & Davila chiamano “il paradosso dell’innovazione”. Come dimostrano le fulminanti cadute di Kodak, Blockbuster, Nokia et. al., questo errore può risultare fatale.