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Multinazionali italiane: il club delle grandi imprese italiane all’estero

Il peso delle multinazionali italiane all’estero è modesto, con una notevole distanza che ci separa dai principali Paesi europei. Secondo uno studio ICE-Politecnico di Milano, nel 2011 erano circa 6.500 aziende multinazionali di provenienza italiana con sedi in tutto il mondo, con una prevalenza nei settori della meccanica e in quelli ad alta intensità tecnologica, con quasi 23mila partecipate nei vari mercati e un milione e 352mila dipendenti. Nel 2018 il quadro è molto meno positivo

Pubblicato il 06 Apr 2018

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Rispetto ai maggiori partner europei, l’Italia rimane un Paese le cui imprese hanno una contenuta dimensione multinazionale: ancora nel 2009, secondo i dati elaborati dall’UNCTAD, il rapporto tra lo stock di investimenti diretti all’estero (IDE) e il Pil era pari per il nostro Paese a poco più del 27%, contro il 76% del Regno Unito, il 65% della Francia, il 44% della Spagna e il 41% della Germania, storicamente gravata dal processo di integrazione con la ex-Ddr. Pesano su questo stato dell’arte note peculiarità del sistema economico nazionale: prevalenza di piccole e medie imprese, specializzazione industriale centrata sul made in Italy o comunque su settori che, per vocazione, privilegiano modalità mercantili di internazionalizzazione e apertura al mondo (esportazioni, catene di subfornitura internazionali, ecc.).

Vediamo qui nel dettaglio la situazione descritta nel rapporto ICE-Politecnico Milano nel periodo precedente al 2011 e, in basso, nel più recente aggiornamento del 2017

Multinazionali italiane nel periodo 2008-2011

Negli anni della crisi (2008-2009), i flussi annuali di IDE dall’Italia verso l’estero hanno subito una contrazione minore che nel caso degli altri maggiori Paesi europei, superando contingentemente quelli di Regno Unito e Spagna e avvicinandosi nel 2009 a quelli della Germania. Prosegue in tal modo l’inseguimento multinazionale del Paese verso livelli più consoni al suo peso economico nel mondo e più simili a quelli raggiunti dalle maggiori economie industrializzate.

In questo scenario, oltre agli investimenti, è di interesse chiedersi quali siano i protagonisti della crescita multinazionale che parte dall’Italia. Se si guarda ai settori chiave dell’industria e dei servizi alle imprese (escluse le banche e le altre attività finanziarie), il database Reprint, promosso dall’ICE e realizzato in Italia presso il Politecnico di Milano, ci dice che il club delle multinazionali italiane è composto da circa 6.500 aziende, con quasi 23mila partecipate all’estero, le quali danno lavoro a oltre un milione e 352mila dipendenti, per un fatturato all’estero che ha superato i 460 miliardi di euro nel 2008. Il club è composto per quasi il 30% da microimprese, con un numero di occupazione dei dipendenti della casamadre inferiore a 50 dipendenti assunti, per poco più del 6% da grandi aziende, ovvero la cui casamadre supera la soglia dei mille dipendenti e per ben il 64% da medie imprese, con taglia della casamadre compresa tra i 50 e i 1.000 dipendenti che offrono il proprio lavoro. Si tratta di un corpo di quasi 4.200 imprese che taluni analisti hanno descritto come “quarto capitalismo” italiano, composto da aziende di eccellenza, spesso leader di nicchia sui mercati internazionali, che hanno saputo innovare i prodotti e conquistare i mercati tramite una presenza diretta, con filiali commerciali e stabilimenti produttivi esteri. Nel corso degli Anni Duemila, questo insieme di multinazionali è cresciuto all’estero in misura più rilevante delle altre categorie, con una dinamica particolarmente accentuata per la classe dimensionale compresa tra i 250 e i 500 addetti. A tale crescita si è accompagnata una peculiare dinamica settoriale. Le imprese che hanno aumentato in misura maggiore la loro presenza all’estero appartengono ai settori specialistici della meccanica e ai settori ad alta intensità tecnologica (soprattutto strumentazione scientifica, farmaceutica e chimica fine, anche se in questo comparto dell’alta tecnologia giocano un ruolo di rilievo alcune grandi multinazionali italiane, come Finmeccanica nel settore della difesa). Seguono, per performance aggregata di crescita, le imprese dei servizi, se pur a partire da una base iniziale alquanto ristretta. Appare invece in contrazione il vasto comparto dei settori tradizionali, ove pesano i disinvestimenti da precedenti iniziative di delocalizzazione produttiva, rivelatesi spesso fragili e di breve respiro strategico. Questa dinamica riflette da vicino la silenziosa, ma importante ristrutturazione che nel corso del decennio appena trascorso ha investito l’industria italiana, con l’emergere, anche sul fronte delle esportazioni, della filiera meccanica e di altre attività a medio-alto livello tecnologico in qualità di settori chiave della competitività del paese.

In termini geografici, la UE -27 assorbe ancora poco più della metà delle presenze italiane all’estero in termini di dipendenti delle imprese partecipate e l’intera Europa raggiunge una quota di quasi due terzi. Questo modello di forte gravitazione sui mercati “domestici” del Vecchio Continente mette in luce il gap di globalità del nostro sistema economico. Tuttavia negli anni più recenti, anche le direttrici dell’IDE italiano stanno cambiando. Le iniziative nell’area del Pacifico e in Asia sono cresciute significativamente in numero e soprattutto in termini di spessore strategico. Limitandoci alla Cina, numerose imprese italiane hanno costruito nuovi stabilimenti o acquisito imprese locali nei settori della metalmeccanica, della chimica, nella gomma, nel tessile e nella filiera dei prodotti elettrici ed elettronici, nella maggiore parte dei casi con l’obiettivo di conquistare il mercato locale.

Le multinazionali italiane hanno poi “riscoperto” gli Stati Uniti, anche grazie alla debolezza relativa del dollaro. L’operazione Fiat-Chrysler e l’acquisizione di DRS Technologies da parte di Finmeccanica sono capofila di una discreta serie di operazioni che ha visto protagonisti nomi noti del panorama industriale italiano, sul fronte sia delle acquisizioni che dei nuovi insediamenti produttivi in terra statunitense: nel triennio 2007-2009 hanno effettuato acquisizioni imprese come Bracco, Brembo, Campari, Eni, Italcementi, Luxottica, Mapei, Pirelli, Saes Getters, Zambon, mentre hanno realizzato nuovi insediamenti produttivi, tra le altre, Arneg, Barilla, Ferrero, Marazzi, Panaria Group, Trafomec Group. Vi sono poi nomi meno noti di piccole e medie imprese, le quali, con acquisizioni mirate, sono state capaci di rafforzare la loro posizione leader in specifiche nicchie di mercato. Vogliamo tra queste citare la cuneese Eurostampa, produttrice di etichette di pregio per i più importanti marchi internazionali dell’industria alimentare e delle bevande, che ha acquisito la Pepper Printing di Cincinnati, divenendo una delle maggiori multinazionali mondiali in questa specifica attività. E la pugliese Mer Mec, attiva nel campo delle soluzioni avanzate per il monitoraggio e la misura delle infrastrutture ferroviarie, che ha acquisito ImageMap, specializzata nelle tecnologie optoelettroniche indirizzate al mercato dell’alta velocità.

Nel complesso, il quadro che emerge è una sostanziale tenuta, nonostante la crisi, della crescita all’estero delle nostre multinazionali: non si sono verificati rilevanti disinvestimenti e si è piuttosto assistito a episodi in cui le nostre aziende multinazionali hanno saputo cogliere opportunità di espansione internazionale. Si può anzi affermare, anche sulla base dei numerosi indizi che ci derivano da incontri e colloqui con gli operatori, che le imprese italiane di eccellenza tendono sempre più a mettere in relazione la loro crescita dimensionale, per linee interne o per linee esterne, all’incremento del loro grado di internazionalizzazione, piuttosto che all’espansione della capacità produttiva e della forza commerciale sul mercato domestico. E l’apertura al mondo viene concretizzata tramite l’inserimento non solo nei mercati ricchi dei paesi industrializzati, ma anche e soprattutto nelle nuove economie, che hanno tassi di crescita da tre a quattro volte superiori a quelli delle economie mature e di quella italiana, in particolare. Il conseguimento di una statura multinazionale è così divenuto il principale driver della crescita delle aziende e della loro strategia di creazione del valore, date le favorevoli condizioni che per il suo tramite esse riescono ad avere nel puntare ad aumenti significativi del fatturato e della redditività. È importante sottolineare che la capacità delle imprese nell’essere allineate e nel creare sinergie ed esternalità positive con la globalizzazione ha una rilevanza che va oltre il perimetro degli interessi degli azionisti e degli stakeholder con cui esse interagiscono. La loro forza propulsiva è tale per cui esse divengono le leve della crescita e della competitività delle economie nazionali e locali in cui operano e con cui interagiscono. Le multinazionali, piccole o grandi che siano, si propongono perciò sempre più come mezzo essenziale di allineamento in senso compiuto di un paese ai nuovi paradigmi dell’economia, della finanza e della concorrenza globale. A questa interpretazione si raccorda anche l’evidenza empirica sugli effetti virtuosi dell’espansione internazionale delle imprese. Anche guardando all’occupazione, sono infondati i timori che l’espansione all’estero delle nostre aziende sia una “fuga” che comporta una riduzione dell’occupazione in patria. Le ricerche condotte con riferimento sia all’Italia che ad altri paesi dimostra una correlazione sovente positiva tra la crescita dell’occupazione all’estero e la crescita dell’occupazione presso la casamadre, accompagnata dall’upgrading della qualità delle risorse umane impiegate.

Il nostro Paese, in tutte le sue componenti, può e deve scommettere sull’internazionalizzazione. Le imprese debbono ampliare la loro visione strategica e destinare con fiducia più risorse finanziarie e manageriali ai processi di crescita multinazionale. Il sistema-paese deve sapere assicurare le esternalità e le condizioni infrastrutturali e di governance atte a promuovere e sostenere i nuovi modelli di crescita all’estero. In particolare, le politiche a sostegno dell’internazionalizzazione delle aziende andrebbero rivisitate, con riguardo sia all’incentivazione e al sostegno finanziario dato alle operazioni, sia all’impianto politico-istituzionale (ambasciate, camere di commercio e uffici all’estero, ecc.), sia ai servizi reali alle imprese. Un’attenta valutazione delle esperienze sin qui maturate, che conduca a un bilancio tra costi sostenuti e benefici collettivi ottenuti, dovrebbe essere il necessario presupposto per la definizione tempestiva di politiche e misure più adatte a cogliere le opportunità del prossimo ciclo di espansione mondiale degli IDE , che potrebbe risultare favorevole alle nostre imprese e strategico per la competitività del Paese.

Gli investimenti diretti all’estero nei servizi di telecomunicazione e informatica: ombre e luci

Gli investimenti all’estero delle multinazionali italiane nei settori dei servizi alle imprese sono generalmente cresciuti e si sono consolidati in questi ultimi anni. Tuttavia, tra questi settori, quello dei servizi di telecomunicazione e di informatica è l’unico a mostrare una riduzione della consistenza delle partecipazioni all’estero nel corso degli Anni Duemila: nonostante sia moderatamente cresciuto il numero delle aziende italiane con partecipazioni all’estero, il numero dei dipendenti ha subito un drastico ridimensionamento, pari al -43% tra il 2001 e il 2009.

Tale dinamica riflette la generale repentina involuzione della new economy, ma soprattutto le dismissioni operate a partire dal 2002 da Telecom Italia e da Tiscali. Telecom Italia, dopo la privatizzazione, avvenuta nel 1997, ha subito due leveraged buyout e quattro cambi di proprietà. In questo travagliato periodo la società si è trasformata da operatore con ambizioni globali a operatore prevalentemente domestico e solo nel periodo più recente si assiste a una ripresa della sua proiezione internazionale. In seguito alle numerose dismissioni all’estero, la società mantiene posizioni di rilievo solo in America Latina, in particolare, in Brasile, dove Tim Brasil è il secondo operatore di telefonia mobile di quel Paese, con una quota di mercato pari a circa un quarto del totale. Telecom Italia detiene inoltre indirettamente il controllo di Telecom Argentina, il principale operatore del Nord del paese latinoamericano, dopo avere risolto nel corso del 2010 un contenzioso con l’Autorità antitrust argentina, durato più di tre anni.

Con la cessione nel 2009 delle attività di Tiscali Uk, si è invece completata la ritirata dalle scene internazionali dell’impresa sarda, il cui perimetro di operatività, allargato nei primi anni novanta a numerosi paesi europei, è oggi di nuovo sostanzialmente riconducibile alle sole attività italiane. Nei servizi di telecomunicazione è invece in ascesa la presenza internazionale di Buongiorno, la quale, a dispetto delle dimensioni ancora modeste in termini assoluti, è divenuta in pochi anni – grazie a numerose acquisizioni, tra le quali particolare rilevanza ha avuto quella della britannica iTouch, conclusa nel 2007 – leader mondiale nel digital mobile entertainment. Attualmente Buongiorno lavora con oltre 120 operatori telefonici, internet e gruppi media in 57 diversi paesi dei cinque continenti, con oltre mille professionisti dislocati in 24 uffici dedicati alla creazione e distribuzione di ogni tipo di contenuto per cellulare: musica, giochi, video, wallpaper, suonerie, servizi usergenerated, chat, tv voting, quiz e pubblicità. Nel settore del software e dei servizi di informatica ben poche aziende a base italiana possono vantare una struttura veramente multinazionale. Tra di esse, merita senz’altro di essere citata Value Partner, società che ha progressivamente allargato il proprio ambito di attività, rafforzandolo con l’acquisizione di Etnoteam, realtà storica dell’ICT italiana. Nel settore, è attiva tramite Value Team, società che dispone di sedi in Italia, Finlandia, Turchia, Germania, Argentina e Brasile. In quest’ultimo Paese, il gruppo ha messo a segno nel 2006 due importanti acquisizioni: Relacional, attiva nell’integrazione di sistemi, e Mitsucon, specializzata negli applicativi per il settore finanziario. In seguito a esse, la società conta oggi su oltre 500 consulenti distribuiti tra le sedi di San Paolo, Rio de Janeiro e Buenos Aires. Da ricordare infine, BravoSolution, del gruppo Italcementi, che rappresenta oggi il secondo player mondiale nel software per la gestione della supply chain, con una presenza diretta in dodici paesi, tra Europa, Asia, Africa e Nord America (negli Usa, in particolare, ha acquisito nel 2007 la concorrente VerticalNet). (BravoSolution nel 2018 si è fusa con l’americana Jagger).

Il quadro 2017 delle multinazionali italiane

Dal rapporto Italia Multinazionale del 2017 risulta che nonostante una ripresa generali dei flussi di IDE in uscita e in entrata a partire dal 2013, il grado di internazionalizzazione, sia attiva che passiva, del Paese continua a essere di molto inferiore a quello dei suoi maggiori partner europei. In dettaglio, per quanto riguarda l’internazionalizzazione attiva, a fine 2016 il rapporto percentuale tra lo stock di IDE in uscita e prodotto interno lordo (PIL) era pari per l’Italia al 24,9%, valore inferiore alla metà della media UE-28 (55,5%). Per avere un confronto, la Francia è al 51,1%, il Regno Unito al 54,9%, la Spagna al 41,9% e la Germania al 39,4%.

Anche sul lato degli investimenti dall’estero la posizione dell’Italia appare modesta, come riflesso della persistente bassa attrattività internazionale del Paese. Il rapporto IDE in entrata e PIL (18,7% 2016) rimane significativamente inferiore alle medie mondiale (35%), dell’Europa (49,3%) e dell’UE (46,7), malgrado la significativa contrazione del PIL italiano.

Le multinazionali italiane sono perlopiù presenti in Europa e nel Mediterraneo, mentre appare modesta o marginale la presenza nelle aree del mondo a più forte attrattività di IDE, sia avanzate, sia in via di sviluppo, le quali sono state sempre più oggetto di concorrenza tra i principali investitori esteri.

Si registra tuttavia una forte crescita delle partecipazioni in America settentrionale, dove la presenza delle imprese italiane era assai debole. L’espansione è stata guidata dal comparto industriale, nel quale l’operazione Fiat-Chrysler si somma a numerose iniziative di imprese di grande e media taglia, in un ampio spettro di attività manifatturiere. In crescita anche le partecipazioni nei principali paesi emergenti dell’Asia e in ripresa quelle in America latina, dopo la forte contrazione nei due decenni precedenti.

Quanto all’origine territoriale delle imprese investitrici si osserva come il club degli investitori mantenga una forte concentrazione al Nord. Un’ampia parte del Paese – il Sud ma anche zone del Centro – che continua a partecipare in misura marginale ai processi di internazionalizzazione, a conferma del ritardo accumulato nei confronti delle regioni più avanzate.

Nel comparto dei servizi si contano sulla punta delle dita le imprese italiane capaci di conquistare una posizione di rilievo nello scenario internazionale. Nel comparto delle grandi imprese, alcune di esse sono apparse in difficoltà nel sostenere la competizione internazionale, mentre altre sono uscite dal novero delle IMN italiane, essendo state acquisite da gruppi esteri. Tali uscite non sono state controbilanciate negli ultimi anni da operazioni di M&A di rilievo verso l’estero e solo nel corso del 2017 si sono avuti segnali di risveglio, con l’annuncio di alcune operazioni di grande rilievo strategico: Luxottica-Essilor, Autostrade-Abertis, Fincantieri-STX France, Ferrero-Ferrara Candy.

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