Ribaltare le regole che governano la ricerca: condividere e “aprire” i laboratori anziché lavorare al chiuso, attivare un’intelligenza collettiva coinvolgendo Stati, Governi e la società in generale. Con un approccio che si chiama anti-disciplina, un metodo per abbattere le barriere che separano le specializzazioni. A sostenere che il progresso non può essere che “open” e pubblico è Joichi Ito, direttore del Media Lab del MIT (Massachusetts Institute of Technology di Boston), fondato 30 anni fa da Nicholas Negroponte. Il professore ha parlato alla platea del World Business Forum (Wobi) che si è tenuto lo scorso novembre a Milano.
Il punto di partenza è che oggi «il costo dell’innovazione è praticamente prossimo allo zero, i ritmi sono accelerati e le modalità di innovare del passato, i brevetti e gli altri strumenti di protezione della proprietà intellettuale, sono ormai obsoleti. Ecco perché possiamo tutti essere inventori se crediamo in quel facciamo».
Tutto diverso da quanto accadeva nell’era B.I. (Before Internet): le cose si muovevano lentamente, secondo la Fisica newtoniana, in modo piuttosto prevedibile. «Il percorso era il medesimo per tutti: studiavi, diventavi un professionista e poi finivi per ripetere quello che avevi imparato per il resto della vita. Ma poi arrivò Internet, Google, Facebook e Yahoo. Gli studenti non avevano titoli accademici prestigiosi, semplicemente realizzavano innovazione. Poi raccoglievano il denaro, pensavano a un piano finanziario e magari dopo assumevano qualche esperto in Business Administration. L’innovazione ha trovato altre sedi: i dormitori universitari, i garage, le startup, lontano dalle grandi istituzioni che avevano il potere, il denaro e l’autorità. Quando innovare costa meno cambia anche l’approccio al rischio: i fallimenti ad alto costo sono problematici, ma quelli a basso costo sono interessanti, apportano delle esperienze. Innovare richiede agilità: cambiare in fretta se le cose non funzionano. Bisogna provare e talvolta serve anche fallire: pensate a Youtube, prima di diventare il colosso tech che è oggi ha dovuto affrontare molte prove e fallimenti».
Un esempio di innovazione pop
Ito cita un esempio di come è stato possibile, coinvolgendo la popolazione, monitorare in modo puntuale in tutto il Giappone la qualità dell’aria e misurare le radiazioni a seguito del disastro nucleare di Fukushima, avvenuto nel marzo 2011. Grazie a un approccio open hardware frutto di un’iniziativa nata sul web, migliaia di volontari si sono costruiti in casa un contatore Geiger che hanno applicato all’automobile. Per mesi, i dati raccolti dalle macchine in movimento lungo strade e autostrade del Paese del Sol Levante hanno permesso di elaborare strategie “ad hoc” di bonifica delle aree maggiormente colpite, monitorando anche l’evolversi della situazione nel tempo. Il professore lo ha chiamato “the power of pull”, il potere propulsivo dell’innovazione che arriva dalla gente comune: un’innovazione di estrazione “pop”, che ha permesso di raccogliere in pochi mesi oltre 50 milioni di dati che, rilevati in modo tradizionale, mandando i tecnici a battere metro quadrato per metro quadrato il territorio nazionale, avrebbero richiesto decenni per essere acquisiti.
La factory-in-a-box
L’avvento di Internet ha permesso di ridurre drasticamente i costi delle comunicazioni, il modello open source quello dei software. E oggi, con le stampanti 3D, si è ridotto anche quello della prototipizzazione e della produzione di piccoli lotti. Il contenimento dei costi porta allo sviluppo di un nuovo modo di sperimentare e cimentarsi, tipico delle startup software ma che può, oggi, essere benissimo trasferito anche alla produzione di sistemi hardware complessi. Un’innovazione che Ito definisce engineering-driven, basata sullo sviluppo collaborativo, che nasce dal basso, dai reparti più che dai laboratori. Un approccio che si contrappone a quello tradizionale (Ito lo addita come MBA-driven, ovvero guidato dai manager), che impone agli scienziati e agli innovatori di attendere il nulla osta (e i fondi) dei vertici dell’azienda per poter procedere con le sperimentazioni. C’è, quindi, un cambio sostanziale nel paradigma dell’innovazione: «La cosiddetta factory-in-a-box, la fabbrica compatta che permette a chiunque, con un piccolo gruzzolo, di avviare un’attività imprenditoriale, è una realtà in diversi Paesi come la Cina, il Giappone o la Silicon Valley americana. Una rivoluzione resa possibile dal fatto che il valore della fabbrica risiede non più nell’impianto produttivo e negli asset ma nelle persone che ci lavorano».
Ito si riferisce a questi innovatori come a “nowist” (si traduce malamente in “adessisti”), esponenti di un’innovazione liquida e istantanea che non ha bisogno di grandi investimenti o complessi business plan. Se anche per l’hardware è possibile passare direttamente dall’idea al progetto, alla prototipizzazione, produzione e vendita, cercando solo in un momento successivo i finanziamenti utili per una produzione su larga scala, allora cade di fatto qualsiasi barriera all’ingresso e si entra in una nuova epoca, quella della “permissionless innovation” che vede garage e cucine di casa sostituirsi ai laboratori.
«Oggi, per esempio, l’area di Shenzen non è più la culla dell’innovazione in virtù dei bassi costi di lavoro ma per l’impegno, gli skill e le professionalità che si sono sviluppate nel tempo. In questa zona, infatti, gli operai che in passato lavoravano per le linee di produzione Apple o Samsung, costruendo telefoni cellulari venduti al costo di 9 euro l’uno, hanno via via affinato le proprie competenze e le hanno messe a frutto per avviare una nuova imprenditorialità, che fa leva su standard di qualità elevati e preparazione professionale. Un’imprenditorialità che non ha bisogno di fabbriche e uffici per affermarsi. Spesso sono sufficienti il garage o la cucina di casa, un notebook e una stampante 3D perché quel che conta è avere l’idea giusta». In queste “factory in a box” le aziende non sono solo a conduzione famigliare ma di dimensione domestica. La famiglia lavora nella propria sala da pranzo e il contributo del nucleo famigliare esteso a parenti e amici dà una spinta propulsiva a un’innovazione meno tecnologica e più “pop”, popolare, spinta dal basso e non guidata dai vertici dell’industria e della finanza. Lo stesso, dice Ito, deve avvenire all’interno delle università.
Le “4 P” dell’apprendimento creativo
«Una delle prime parole che ho imparato quando mi sono unito al Media Lab è stato anti-disciplinarità. Era, infatti, un requisito che spiccava nell’annuncio del
bando di assunzione di un nuovo ricercatore. Si tratta di qualcosa di ben diverso dell’approccio multi-disciplinare o interdisciplinare che nei decenni recenti molte università hanno sperimentato con successo. Il lavoro interdisciplinare si ottiene quando si mettono persone provenienti da diverse disciplin e e con un diverso background, tecnico, scientifico, umanistico, psicologico… a lavorare insieme. Un progetto improntato all’anti-disciplinarità non si risolve nella pura somma delle competenze dei singoli, è qualcosa di completamente diverso, significa superare i rigidi confini delle discipline accademiche per abbracciare nuove modalità anticonvenzionali di creare innovazione. Solitamente, infatti, nell’ambito accademico tradizionale ci si confronta comunque tra esperti, luminari con una conoscenza approfondita di una certa materia, senza assumersi il rischio di un approccio meno convenzionale». Spesso, invece, sostiene Ito, quel che serve è la non-conoscenza, la non-specializzazione, la non-disciplina, unite a passione, magia e una certa dose di follia. Una formula che il direttore stesso ha racchiuso nella sua teoria delle “4 P dell’apprendimento creativo”: Projects (progetti, per imparare da chiunque possa dare un contributo, indipendentemente dalla sua estrazione), Peers (colleghi, perché nel campo dell’innovazione non esistono capi, si opera tutti allo stesso livello), Passion (passione) e Play (gioco, perché non deve essere la frenetica ricerca del risultato a guidare le scelte di chi innova, contano di più lo spirito anticonvenzionale e il pensare fuori dagli schemi che non una rigida dipendenza dalle regole del laboratorio). Non si fa volutamente riferimento a competenze o specializzazioni: tutti possiamo, infatti, sfruttare la conoscenza condivisa per trasformare ciò che ci circonda e renderlo più simile a quel che ci serve o a come vorremmo che fosse, anche se non abbiamo un dottorato di ricerca.
Adafruit, un esempio di successo: quello che si può fare con la stampa 3D
Limor Fried, citata da Ito nel corso del suo intervento, è una ex studentessa del MIT (laureata in ingegneria elettronica) oggi a capo di una società (Adafruit Industries) dal fatturato multimilionario e una cinquantina di dipendenti. La società deve la sua fortuna alla vendita di “kit fai da te” per costruire i propri gadget elettronici. I kit includono una licenza open source, un insieme di componenti hardware un invito ai clienti a modificare a loro piacimento i dispositivi elettronici in dotazione, per ottenere il prodotto finale di loro gradimento. Grazie ai contributi tecnologici ottenuti dai clienti, oggi la società produce anche sensori IoT, mini robot, schede madri e schede Wi-Fi, oltre a tutta una serie di gadget – rilevatori portatili di allergeni, pendenti per collane che si illuminano in relazione ai rumori dell’ambiente, solo per citarne un paio. La Fried è una pioniera del movimento dei “maker”, che promuove la diffusione di un approccio di innovazione aperta e condivisa – sulla scorta di quanto avviene con la filosofia open source nel software – anche in ambito hardware e, in generale, in qualsiasi industry o settore. Il motto dei maker è “facciamolo insieme” ed è così che il movimento, presente in un centinaio di paesi, condivide informazioni e conoscenza, sfruttando Internet e alcuni luoghi fisici, che vengono chiamati Fab Lab. La fortuna di Adafruit Industries è legata al MintyBoost, un powerbank per ricaricare smartphone e altri device mobili i cui progetti sono stati condivisi da subito sul Web dalla Fried. Quello della Fried è uno dei primi esempi di “factory in a box”: per creare un nuovo business milionario le è bastato pochissimo spazio (e altrettanto denaro), un notebook e una stampante 3D.
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Chi è Joichi Ito
Joichi “Joi” Ito è riconosciuto nel mondo per essere uno dei più brillanti imprenditori, venture capitalist, attivista e promotore dello sviluppo personale e nazionale attuato attraverso la collaborazione sul web. Dal 2011 dirige il Media Lab del Massachusetts Institute of Technology di Boston (USA), dove sperimenta approcci radicalmente innovativi nell’insegnamento e nella diffusione delle scienze e della tecnologia. Nato a Tokio, in Giappone, con la famiglia si è trasferito in Canada all’età di 3 anni e successivamente a Detroit (USA). Figlio di scienziati e bambino prodigio, a 13 anni il fondatore di Ovonics, società nella quale lavorava suo padre, gli offre un posto di lavoro in laboratorio, intravedendo in lui una curiosità e un’intelligenza fuori dal comune. Venture capitalist di successo, è stato tra i primi a investire in società come Twitter e Flickr. È una delle icone della sharing economy e siede nel board di numerose società attive nel mondo delle tecnologie digitali, da Sony Corporation a The New York Times Company. Inoltre, ha contribuito a creare e far crescere diversi progetti open source e Internet come ICANN, Mozilla Foundation e Open Source Initiative (OSI). La sua passione per la musica “garage” lo ha portato a lavorare anche come disk jockey nei locali di Chicago e a gestirne alcuni negli USA e in Giappone, paese col quale ha mantenuto sempre strettissimi legami sin dall’infanzia, quando passava i mesi estivi dalla nonna. Da sempre piuttosto critico nei confronti dei metodi di insegnamento universitario, il suo percorso scolastico è piuttosto “ballerino”. Non ha mai conseguito una laurea ma gli sono stati attribuiti diversi titoli onorifici, tra i quali spiccano una laurea honoris causa in letteratura dalla The New School di New York nel 2013 e un dottorato in scienze umane dalla Tufts University nel 2015.